LETTERATURA ITALIANA, LETTERATURA MODERNA E CONTEMPORANEA

Siamo tutti “Canne al vento”

“Ma perché tutto questo, Efix, dimmi, tu che hai girato il mondo: è da per tutto così? Perché la sorte ci stronca così, come canne?”

“Sì”, egli disse allora, “siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento.”

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Con queste parole pronunciate dal “protagonista” si giustifica il titolo di questo romanzo edito nel 1913 e afferente al filone del verismo romantico. La parola “protagonista” è inserita tra virgolette perché in realtà Efix appare come un osservatore di vicende che lo riguardano in parte, in quanto servo della famiglia Pintor, appartenente alla nobiltà decaduta. Un giorno viene comunicato alle tre sorelle Pintor Ruth, Ester e Noemi che il loro nipote Giacinto, figlio di un’altra sorella di nome Lia, fuggita in gioventù, verrà a stare presso di loro. Efix ne è contento in quanto pensa che una figura maschile per le tre sorelle avrebbe potuto assumere un ruolo di protezione. Solo donna Noemi è titubante rispetto all’arrivo del giovane, che infatti si rivela piuttosto sprovveduto in quanto accumula debiti che paga prendendo a prestito dall’usuraia del paese. Infine sarà costretto a cercare un’occupazione altrove, lasciando sola la ragazza con cui aveva frattanto iniziato una relazione.

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La narrazione viene esposta in modo piuttosto realistico, con dovizia di descrizioni dei paesaggi, ma non dei personaggi. Si tratta di una storia da cui si possono trarre spunti di carattere etnografico, sulle usanze di una Sardegna primitiva e popolana. Si parla di vecchi errori, di vecchi rancori che caratterizzano la famiglia Pintor e il fedele servo Efix, il quale nasconde però un segreto che in un certo senso è motore della vicenda in quanto ha fatto sì che l’uomo spronasse le dame Pintor ad accettare Giacinto.

Al centro della storia dunque è da un lato la debolezza umana di Efix, che partirà ad un certo punto finendo con il diventare un mendicante, dall’altro l’amore di donna Noemi per Giacinto. Quest’ultimo sentimento viene solo accennato, si allude ad esso come a qualcosa di inconcepibile per l’uomo, l’amore non platonico di una zia per il proprio nipote. Un doppio matrimonio finale stroncherà la realizzazione di ogni impossibile desiderio proibito.

Consiglio questo romanzo agli amanti degli autori veristi, a cui piaccia la descrizione di un mondo povero caratterizzato da sentimenti semplici, quasi primitivi.

Non lo consiglio a coloro che abbiano passione per lo scandaglio psicologico dei personaggi: qui non vi è eccessiva introspezione psicologica, o meglio si comprende quest’ultima indirettamente in base alle parole e ai gesti compiuti dai personaggi.

Molto suggestive le descrizioni, a tratti poetiche.

LETTERATURA MODERNA E CONTEMPORANEA

Perché leggere “Una donna” di Sibilla Aleramo

Citazione:

“E come può diventare una donna, se i parenti la danno, ignara, debole e incompleta, a un uomo che non la riceve come una sua uguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinché continui a baloccarsi come nell’infanzia? Dacché avevo letto uno studio sul movimento femminile in Inghilterra e Scandinavia, queste riflessioni si sviluppavano nel mio cervello con insistenza”.

Struttura e contenuto dell’opera

  • L’opera è divisa in 3 parti, che rappresentano la vita dell’autrice;
  • la figura del padre, di ispirazione per la giovane, sarà poi deludente in quanto sostanzialmente abbandona la famiglia per un’altra donna
  • La scrittura, nutrita grazie alle letture, rappresenta per la protagonista un elemento di riscatto 
  • Il titolo rimanda a una vicenda che vuole essere esemplare, non specifica di una persona. Sono assenti i nomi propri per lo stesso motivo
  •  i dialoghi sono poco presenti, non appaiono molte descrizioni approfondite
  • Il narratore-protagonista è interno e racconta in flash-back la vicenda di una crisi di identità
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Buoni motivi per leggere “Una vita”

  • Si tratta del primo testo femminista della nostra letteratura
  • Finalmente la donna non è più vista come proprietà dell’uomo: l’auspicio è quello di affermare le proprie capacità personali e i propri desideri, in sintesi la propria identità
  • Una donna non è un’opera narrativa tradizionale, rappresenta una sorta di romanzo di formazione in cui la protagonista si libera delle prigioni familiari e si ribella al proprio ruolo tradizionale di madre e moglie
  • La scrittura è semplice, basata su un’alternanza di narrazione e riflessione; in particolare vi sono riflessioni su temi cari alla protagonista e analisi di carattere psicologico
  • la struttura non è realistica, ha similitudini con i romanzi di Pirandello e Svevo
  • lo stile è ricco di metafore, similitudini, anafore, interrogative retoriche ed esclamazioni. Sembra una prosa quasi poetica.

Considerazioni di contesto

Nel 1946 ha inizio un nuovo periodo importante per le donne italiane, grazie al riconoscimento dei diritti politici, ma l’Italia è comunque di nuovo in ritardo rispetto ad alcuni altri paesi come ad esempio l’Inghilterra dove “la donna gode della piena capacità giuridica in materia di contratti e di beni” già a partire dal 1870. È soprattutto negli anni Sessanta però, con il baby boom, che i grandi movimenti di emancipazione femminile nascono e si estendono in Italia. Nonostante il ritardo storico complessivo dell’Italia rispetto all’Inghilterra, la Aleramo è comunque in anticipo poiché il romanzo Una donna risale ai primi del 1900. La maggior parte dei testi femministi inglesi, come A room of one’s own e Three Guineas di Virginia Woolf risalgono agli anni Venti e Trenta. Negli anni Settanta la concezione del matrimonio cambia, modificando l’idea del marito come capofamiglia e cancellando la concezione di una relazione impari tra i coniugi. La relazione paritaria guadagna terreno e l’uguaglianza della donna si afferma, cosicché il ruolo della donna non è più soltanto ristretto alla maternità e al governo di casa, ma si estende anche a ruoli nuovi.

Bibliografia

S. Aleramo, Una donna, Milano, Feltrinelli, 2013

M. Colonna, L. Costa, Le voci delle donne, La scrittura femminile nel Novecento, Milano, Paravia, 2021

Lara Dierickx, Una Donna di Sibilla Aleramo. La presenza di prototipi femminili nella prima letteratura femminista italiana, tesi di laurea, facoltà di Gent, a.a 2014/2015

LETTERATURA ITALIANA, LETTERATURA MODERNA E CONTEMPORANEA

“Uomini e no” di Elio Vittorini

Più che un romanzo, “Uomini e no” è un insieme di frammenti narrativi che rispecchiano un momento storico concitato, quello della Resistenza a Milano nel 1944. I brevi capitoletti analizzano la situazione da punti di vista diversi, cosicché il lettore si trova spesso catapultato nella realtà di personaggi dai nomi in codice, non descritti direttamente, ma indirettamente presentati dalle loro parole, azioni, gesti, interlocuzioni.

Tra gli eventi violenti perpetrati dai nazisti si verifica una strage di civili, così descritta:

“I morti al largo Augusto non erano cinque soltanto; altri ve n’erano sul marciapiede dirimpetto; e quattro erano sul corso di Porta Vittoria; sette erano nella piazza delle Cinque Giornate, ai piedi del monumento.

Cartelli dicevano dietro ogni fila di morti: Passati per le armi. Non dicevano altro, e tra i morti erano due ragazzi di quindici anni. C’era anche una bambina, c’erano due donne e un vecchio dalla barba bianca. […] Come? Anche quei due ragazzi di quindici anni? Anche la bambina? Ogni cosa? Per questo, appunto, sembrava anzi che comprendesse ogni cosa. Nessuno si stupiva di niente. Nessuno domandava spiegazioni. E nessuno si sbagliava”

Oltre alla dimensione storica ciò che distingue il romanzo è una storia d’amore infelice tra Enne 2 e Berta: storia infelice in quanto lei è già di un altro uomo. Due incontri caratterizzano il procedere della narrazione, nel secondo dei quali sembra che la situazione sentimentale di Berta si sblocchi in favore di Enne 2. Tuttavia ad un certo punto lei decide di tornare da suo marito per spiegargli il suo punto di vista, lasciando Enne 2 solo e deluso. Prima di questa delusione, il partigiano rivolge a Berta bellissime parole:

“Sapevi di essere mia moglie? Non lo sapevi. E invece lo sei”.

“Quando non lo sapevo non lo ero”

“E invece lo eri” […]

“Lo sei sempre stata” egli le disse.

La baciò. E fuori dalle finestre, alte sulle altre case, ancora si vedeva, bianco e celeste negli occhi del cielo, staccato da terra, il ghiaccio delle montagne.

“Non lo sei sempre stata?” disse Enne2. “Lo sei sempre stata”.

“E le montagne?” Berta chiese. “Le hai sempre vedute?”

“Le ho sempre vedute”

“E i morti?”

“Ci sono sempre stati.”

“E gli occhi azzurri?”

“Gli occhi azzurri?”

“Di chi mi hai parlato sempre che aveva gli occhi azzurri? Era tuo padre? Erano nella tua infanzia?”

“Erano tu stessa”

“Io stessa gli occhi di tuo padre?”

“Tu stessa la mia infanzia”

“Io anche la tua infanzia?”

“Tu ogni cosa. Sei stata ogni mia cosa, e lo sei”.

“Lo sono?”

“Sei ogni cosa che è stata e che è”.

“E tua moglie?”

“Mia moglie. Mia nonna e mia moglie. Mia madre e mia moglie. La mia bambina e mia moglie. Le montagne e mia moglie”.

Il bacio di Klimt

In seguito ad una azione contro i fascisti, Enne 2 viene identificato e viene posta una taglia su di lui per chiunque lo denunci. Viene suggerito ad Enne 2 di fuggire, ma l’uomo si trattiene principalmente per attendere il ritorno di Berta.

Commento

La narrazione, decisamente frammentaria e quasi del tutto dialogica, è sicuramente particolare. La vicenda non risulta sempre facile da seguire, ma il romanzo è consigliato per chi abbia predilezione per i testi di natura narrativa o addirittura teatrale. La componente descrittiva è esigua e quella riflessiva è confinata alle pagine scritte in corsivo, che però non sembrano integrarsi particolarmente nella vicenda, ma appaiono commenti di carattere generico.

Chi è appassionato alla storia della Resistenza potrà trovare nel libro un’interessante rappresentazione realista delle figure partigiane e fasciste; ma sicuramente l’aspetto più piacevole risiede nel racconto della storia d’amore epica tra Berta e Enne 2.

LETTERATURA ITALIANA, LETTERATURA MODERNA E CONTEMPORANEA

“Paesi tuoi” di Cesare Pavese

Paesi tuoi è scritto nel 1939 ed esce presso la casa editrice Einaudi nel 1941.

La critica saluta il romanzo come un esempio di rinnovato verismo, ma questo è un equivoco, durato a lungo. Il linguaggio di Paesi tuoi è quello popolareggiante intriso di dialetto, così come in Verga si intravedeva in filigrana il dialetto dei personaggi, ma ci sono differenze profonde con Verga. In quest’ultimo si verificava una svolta della narrativa ottocentesca, il narratore parlava come uno dei personaggi; il narratore di Verga è interno al mondo rurale rappresentato, quello di Pavese è esterno e vede il mondo contadino dal di fuori e ciò crea il senso della narrazione, nella quale il viaggio è scoperta di un mondo diverso e ignoto. A narrare è Berto, un meccanico torinese che conosce un contadinotto, Talino, che lo invita a seguirlo nella cascina del padre nelle langhe. Berto prima rifiuta ma poi si trova in difficoltà, senza casa e senza lavoro. La focalizzazione è interna sul personaggio. Anche nella narrazione in prima persona bisogna dire che le funzioni sono diverse: un conto è chi vive i fatti, un conto è il narratore che li rivive. Il fatto che sia focalizzato sul primo tipo di narratore dà senso di immediatezza.

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Il testo pavesiano allude al grembo materno della madre terra. La mammella non è solo simbolo materno pre-edipico ma anche simbolo erotico. La ricerca è pervasa da impulso erotico, le sorelle di Talino non sono molto attraenti però una di loro, come dice Berto, è meno “manza” delle altre. Berto scopre segni di violenza sul corpo di Gisella e cerca di capire cosa sia successo. Talino è figura apparentemente ridicola, sembra quasi demonica, incarnazione atroce del male, regno di violenza e sangue. I luoghi sembrano rimasti fermi a una stagione arcaica. Il critico Barberi Squarotti ha detto che il viaggio di Berto non è un viaggio nello spazio, quanto un viaggio nel tempo. La campagna conserva costumi, mentalità, riti ancestrali, anteriori alla civiltà come la si intende comunemente. E’ il regno del selvaggio. Pavese è ossessionato dall’idea del selvaggio, cui dedica molte annotazioni soprattutto nel Mestiere di vivere. L’interesse per ciò va di pari passo con le scienze antropologiche (cfr. Il ramo d’oro di Frazer). In questo senso Pavese studia riti, sangue, sesso, fuoco per rendere feconda la terra, falò accesi per fecondare i campi. Si pensava inizialmente che Pavese volesse rappresentare la realtà cruda della campagna – esiste in un romanzo naturalista, La terra di Zola, una vicenda simile. Anche Paesi tuoi a volte è stato assimilato ai primordi della corrente neorealista. Ma invece è un romanzo simbolico: ad esempio l’uccisione di Gisella sui covoni di grano è un sacrificio umano, di cui Pavese legge infiniti esempi nel libro di Fraser.

La matrice è decadente e dannunziana: la collina-mammella viene da D’Annunzio, Il trionfo della morte 1895. D’Annunzio è fondamentale nella formazione del giovane Pavese, l’interesse per il selvaggio accomuna i due autori. Alcune annotazioni del Mestiere di vivere sono illuminanti in relazione all’idea del selvaggio. Tutto ciò che lo ha interessato gira intorno al selvaggio e in questo senso Pavese cita proprio d’Annunzio.

Feria d’agosto è un libro contenente racconti, prose liriche, piccoli poemi in prosa in cui Pavese enuncia la teoria del mito centrale nella sua visione. Poi si evidenzia un gruppo di saggi sotto il titolo complessivo Del mito, del simbolo e dell’altro. Qui si comincia con la descrizione di un’estasi panica e lo scrittore confessa che di fronte alla campagna è preso come dire da una sorta di immedesimazione per cui si identifica con le varie presenze della campagna, si trasforma nel vento, nelle foglie, nel succo dei frutti cioè esattamente come in una di quelle estasi paniche di Alcyone. Però Pavese è anche consapevole dei rischi che comporta questo cedimento all’irrazionale decadente ed anzi ne era diventato consapevole proprio per l’esperienza del fascismo e della guerra: sapeva bene che l’irrazionalismo decadente era fra le matrici culturali del nazifascismo. Immergersi nell’irrazionale e restarne prigioniero non va bene, Pavese vuole portare l’irrazionale a chiarezza, ammirando il progresso. In Paesi tuoi il protagonista Berto rappresenta infatti proprio la ragione, il logos, la modernità, in quel mondo arcaico e superstizioso.

LETTERATURA MODERNA E CONTEMPORANEA

“Preludio” di Emilio Praga

La Scapigliatura è una corrente letteraria sviluppatasi negli anni Sessanta dell’Ottocento. Ne fanno parte scrittori e poeti molto diversi tra loro ma accomunati da una stessa insoddisfazione per lo stato della letteratura italiana del loro tempo. Il termine deriva da un romanzo di Cletto Arrighi, intitolato appunto La Scapigliatura e il 6 febbraio. Il desiderio di questi intellettuali è opporsi a tutti gli ordini stabiliti, ribellarsi alla classe borghese, riprendere lo spirito bohémienne parigino, adattandolo al contesto italiano. Il centro propulsore della nuova corrente letteraria è Milano, città dove gravita anche la figura di Emilio Praga, autore della poesia-manifesto Preludio:

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  • Noi siamo i figli dei padri ammalati:
  • aquile al tempo di mutar le piume,
  • svolazziam muti, attoniti, affamati,
  • sull’agonia di un nume.
  • Nebbia remota è lo splendor dell’arca,
  • e già all’idolo d’or torna l’umano,
  • e dal vertice sacro il patriarca
  • s’attende invano;

  • s’attende invano dalla musa bianca
  • che abitò venti secoli il Calvario,
  • e invan l’esausta vergine s’abbranca
  • ai lembi del Sudario…

  • Casto poeta che l ‘Italia adora,
  • vegliardo in sante visioni assorto,
  • tu puoi morir!…Degli antecristi è l’ora!
  • Cristo è rimorto!

  • O nemico lettor, canto la Noia,
  • l’eredità del dubbio e dell’ignoto,
  • il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia,
  • il tuo cielo, e il tuo loto!

  • Canto litane di martire e d’empio;
  • canto gli amori dei sette peccati
  • che mi stanno nel cor, come in un tempio,
  • inginocchiati.

  • Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro,
  • e l’Ideale che annega nel fango…
  • Non irrider, fratello, al mio sussurro,
  • se qualche volta piango:

  • giacché più del mio pallido demone,
  • odio il minio e la maschera al pensiero,
  • giacché canto una misera canzone,
  • ma canto il vero!

La poesia si apre con una dichiarazione categorica: i giovani della generazione di Praga (specie i poeti) sono figli di padri malati, padri incapaci di trasmettere valori solidi e ancora condivisibili. Sono come aquile nel periodo della muta delle piume, quando, impedite a librarsi in ampi voli, possono tutt’al più svolazzare vicino al loro nido, che però non garantisce protezione di un rifugio familiare, ma attesta il consumarsi di un disastro: il nume, il dio protettivo in cui si è creduto, sta morendo. Ormai la poesia religiosa ha esaurito la sua funzione, adesso anche il poeta simbolo di quella musa cristiana non può più comunicare nulla perché è l’ora degli anticristi, Cristo è morto nuovamente. I valori di cui si fa portatrice la spiritualità, la rettitudine, il rigore morale, la Provvidenza, sono tramontati e i nuovi autori al contrario cantano la Noia, l’eredità del dubbio e dell’ignoto: ormai la certezza positiva della fede è scardinata e domina un certo smarrimento, un’oscillazione maledetta tra una convinzione e l’altra.

Potremmo dire che qui il discorso si fa metaletterario, in quanto il poeta dichiara l’azione di “cantare” e si appella direttamente al lettore, definito “nemico” probabilmente in quanto membro della categoria borghese e benpensante. Il poeta scapigliato canta il vero, cioè la nuda e cruda realtà, con le sue brutture e contraddizioni, senza edulcorarla con maschere e ipocrisie.

Tuttavia la novità poetica prospettata è solo annunciata, ma non effettiva. La poesia rimane formalmente nel segno della tradizione (si notino le anafore vv. 6-7, 21-22, 25 e la cobla capfinida tra la seconda e la terza strofa), e dal punto di vista del contenuto sono fortissime le riprese dai Fiori del male di Baudelaire. Basta, a titolo di esempio, osservare l’explicit della famosa poesia finale della raccolta del poeta francese, Il viaggio:

E tanto brucia nel cervello il suo fuoco, / che vogliamo tuffarci nell’abisso, Inferno o Cielo, cosa importa? / discendere l’Ignoto nel trovarvi nel fondo, infine, il nuovo.

L’abisso, l’inferno, il loto, l’ignoto, sono tutti concetti che in qualche modo la Scapigliatura recupera e trasferisce poeticamente, replicando immagini ed espedienti letterari già usati da Baudlaire.

LETTERATURA ITALIANA, LETTERATURA MODERNA E CONTEMPORANEA

Perché leggere “Gli indifferenti” di Moravia

Perché un testo scritto nella prima metà del Novecento dovrebbe essere ancora oggi valido? Si tratta di una lettura consigliabile oppure meglio evitarla per dar spazio a romanzi scritti ai giorni nostri?

“Gli indifferenti” è un classico, e come tale è senza tempo, è oltre la misura del tempo. Non si tratta di un dramma calato in una precisa dimensione storica e ad essa collegato, si tratta invece dell’espressione di dubbi esistenziali e di problemi assoluti e universali.

Moravia sceglie di concentrare l’azione in due giorni e di focalizzarla su pochi personaggi, una madre, Mariagrazia, con i suoi due figli, Carla e Michele, e due amici di famiglia, Leo e Lisa. L’intenzione è infatti, come dice l’autore, di redigere in forma di romanzo una sorta di dramma, di tragedia.

Ogni personaggio contiene in sé elementi drammatici, sfumature caratteriali e insicurezze diverse, ma tutti sono forse accumunati da un identico malessere e da una certa insoddisfazione, più o meno accentuata e cosciente, verso la vita.

Mariagrazia è il personaggio di cui sappiamo meno, nel senso che viene descritto dal punto di vista degli altri personaggi, principalmente. Sembra in un certo senso una figura negativa, per i sentimenti che suscita negli altri, ovvero pietà, rabbia, rancore. Si tratta di una donna non più giovane, con problemi economici, che accoglie in casa un amico di famiglia, Leo, di cui è segretamente amante. In verità i figli sono coscienti di questa relazione, anche perché Mariagrazia indugia spesso in scenate di gelosia verso Leo e i suoi comportamenti. Lo stesso Leo è il salvatore della donna ma anche il suo carnefice, perché richiede indietro un prestito fatto alla famiglia, altrimenti minaccia di esigere la casa di Mariagrazia per rivenderla. In verità sa che la vendita all’asta frutterebbe alla famiglia una somma notevole, con la quale potrebbero essere saldati i debiti: per questo motivo intende farsi intermediario, “derubando” Mariagrazia degli effettivi introiti derivanti dalla vendita dell’immobile. Ciò fa comunque capire la cecità della donna, che non si accorge delle reali intenzioni di Leo e che addirittura lo reputa sinceramente innamorato di lei. L’uomo rappresenta una sorta di ossessione per Mariagrazia, gelosa e incapace di misurare le sue reazioni di fronte ai figli. Emerge oltre a questo un certo egoismo un po’ infantile della donna, una tendenza al capriccio che mal si concilia con la sua età e con le responsabilità di una madre. Tuttavia, proprio per queste sue fragilità, è difficile avere Mariagrazia in antipatia: con tutti i suoi limiti, il suo comportamento è tuttavia evidente, sincero, senza troppi sotterfugi.

Leo, l’amante e amico di Mariagrazia, è un uomo non più giovane verso cui al contrario è difficile non provare antipatia: opportunista, bugiardo, meschino fino al punto da voler ingannare l’amante e da sedurne la figlia. Nonostante ciò, si tratta forse del personaggio più felice e risolto. Egli ha tutto quel che vuole ottenere e in fondo è pago di se stesso, sa essere calmo e razionale e non è scosso da dubbi o sentimenti profondi. In un certo senso è l’antagonista degli altri personaggi, ma allo stesso tempo è il perno intorno al quale essi ruotano.

Carla è la figlia ventiquattrenne di Mariagrazia, una ragazza carina pur nella presenza di alcuni difetti fisici. La sua descrizione è spesso offerta dal punto di vista libidinoso di Leo, ma apprendiamo molti dettagli anche da quello autoriferito della ragazza, mentre si guarda allo specchio. Carla è infelice e si sente intrappolata in un’esistenza senza senso, soprattutto a causa dei comportamenti infantili ed egocentrici della madre. Decide di dare una svolta alla sua vita commettendo un’azione piuttosto immorale, nella convinzione che anche un cambiamento in peggio possa comunque salvarla da quella noia e indurla a progredire in una direzione diversa.

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Michele è sicuramente il personaggio più consapevole, una sorta, forse, di alter ego dell’autore. Egli ha un punto di vista chiaro e cosciente su se stesso e sugli altri, di lui conosciamo pensieri e riflessioni profonde. Sa benissimo di essere indifferente rispetto a tutti e rispetto a tutto: il suo fallimento sta proprio nel non riuscire a provare sentimenti di nessun tipo e per nessuno. Pertanto non riesce né ad amare, né ad odiare, ma spesso finge, consapevolmente, di agire spinto dall’onda di sentimenti fittizi. Michele sa che le azioni umane sono spinte tutte da una certa mancanza di sincerità, di vero affetto, di solidarietà. Sa che le persone agiscono per un tornaconto materiale, economico o, peggio ancora, fisico. Michele è dunque un censore dei comportamenti umani, di cui smaschera l’ipocrisia e la contraddittorietà. Rimane comunque destinato al fallimento, perché incapace di agire in alcun senso per realizzare ciò che reputa giusto e per affermare sé stesso nel mondo. In questo senso non differisce molto da Carla, benché la sua visione sia più lucida e matura.

Lisa è una donna dall’aspetto pingue e sereno, che sembra trascorrere, come Leo, molto tempo nella realizzazione dei suoi progetti amorosi. Si tratta di un’amica di Mariagrazia, della quale sopporta sovente accuse e capricci. A modo suo è un personaggio, come Leo, abbastanza risolto. Sa quello che vuole e agisce per ottenerlo. In questo senso è più risoluta e forte di Mariagrazia e dei suoi figli, tanto da aver capito la natura meschina di Leo e da arrivare a respingerlo.

Tutti questi personaggi ricordano forse un po’ l’aristocratica nullafacenza del giovin signore di Parini: se lì si trattava, appunto, di una critica al ceto nobile, qui, al contrario viene dipinta l’inerzia colpevole del mondo borghese, sempre interessato ad aspetti materialistici o frivoli e privo di sentimenti positivi, di concretezza, di solidarietà reciproca.

Il romanzo scorre via piacevole e rapido, il lettore è incalzato dalla curiosità di sapere cosa faranno i personaggi. Il tempo della storia è breve, si risolve tutto in un paio di giorni, ma la dovizia di particolari nelle descrizioni lo dilata molto, tanto che la vicenda sembra avvenuta nell’arco di alcuni mesi. Molto interessante il gioco dei punti di vista e la caratterizzazione psicologica non solo dei personaggi, ma anche degli ambienti e degli oggetti, descritti in relazione ai sentimenti dei protagonisti.

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Possiamo dunque chiederci: è vero che di base l’uomo è indifferente rispetto a quello che gli accade intorno e finge soltanto di interessarsene e di provare emozioni e sentimenti veri? Mi sembra una domanda interessante, la cui risposta potrebbe non essere univoca.
E tu, che cosa ne pensi?

LETTERATURA ITALIANA

“La casa in collina” di Cesare Pavese


Trama
Il titolo del romanzo ci conduce già in un luogo significativo per vari aspetti, come si evince da questa citazione:
“Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere.
Siamo in estate durante la seconda guerra mondiale e Corrado, un insegnante di scienze che lavora a Torino, abita con due donne, Elvira e sua madre, in collina. Elvira nutre dei sentimenti per lui.
Una sera si sente l’allarme della guerra e il protagonista, rifugiatosi nel cortile di un’osteria, incontra una ragazza frequentata in passato: Cate. Con lei ha un breve colloquio che basta a fargli ripercorrere la vicenda amorosa che li ha legati, essenzialmente basata, per Corrado, su un approccio fisico, senza troppo sentimento.
Nonostante la sua noncuranza Corrado dovrà fare i conti con un bombardamento che probabilmente aveva fatto dei morti: giunto in una Torino semideserta, mentre la scuola è naturalmente chiusa, l’insegnante capirà meglio l’entità di quanto avvenuto. Passeggiando per la città Corrado ripensa alla sua relazione con Anna Maria, durata tre anni e non conclusasi col matrimonio programmato: si tratta di un’altra figura femminile il cui ricordo è misto a sentimenti di oppressione e quasi di rancore.
Corrado torna svariate volte alle “Fontane”, dove è l’abitazione di Cate e dove si trovano altri personaggi con cui l’insegnante dialoga sempre più spesso. Parlando con Cate scopre che lei ha un bambino; solo più tardi capirà che il nome Dino sta per “Corrado” e chiederà spiegazioni del nome alla madre. Corrado immagina infatti che si tratti di suo figlio. Dalla conversazione con Cate emerge che quest’ultima ha una chiarissima percezione della personalità del protagonista:

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“La guardai interdetto: – Non sono più buono, Cate? Anche con te, non sono buono più che allora?Non so, – disse Cate, – sei buono così, senza voglia. Lasci fare e non dai confidenza. Non hai nessuno, non ti arrabbi nemmeno.

– Mi sono arrabbiato per Dino, – dissi.

Non vuoi bene a nessuno.

– Devo baciarti, Cate?

– Stupido, – disse, sempre calma, – non è questo che dico. Se io avessi voluto, mi avresti baciata da un pezzo. – Tacque un momento, poi riprese: – Sei come un ragazzo, un ragazzo superbo. Di quei ragazzi che gli tocca una disgrazia, gli manca qualcosa, ma loro non vogliono che sia detta, che si sappia che soffrono. Per questo fai pena. Quando parli con gli altri sei sempre cattivo, maligno. Tu hai paura, Corrado.”

Si comprende la personalità distaccata dell’uomo dalle semplici parole di Cate, e lo stesso Corrado è assolutamente consapevole di essere “immune” in mezzo alle cose, come dichiara a se stesso, mentre riflette.
Un giorno alle Fontane si viene a sapere che Mussolini è caduto; Corrado teme che la guerra non finisca, ma anzi cominci, e in effetti gli eventi sembrano dargli ragione.
Il tempo trascorre per Corrado, riapre la scuola, passano le stagioni e lui rimane chiuso nelle sue abitudini e defilato rispetto a quanto di pericoloso e angosciante accade intorno a lui. I tedeschi catturano tutti gli abitanti dell’osteria tranne Dino, che Corrado porta da Elvira, mentre lui stesso su suggerimento della donna si rifugia al collegio di Chieri. La fuga era necessaria in quanto i tedeschi lo stavano cercando, erano andati anche a Torino per prenderlo.
Quando Corrado apprende che il collegio non è più sicuro, torna a casa di Elvira, mentre Dino, che viveva nel medesimo collegio, fugge. Corrado decide dunque di tornare al suo paese natale e viaggia attraversando conflitti tra tedeschi e partigiani, ma scampando sempre ai pericoli.
La sua vita è sempre stata una ricerca di isolamento, come lui stesso dichiara: “mi accorgo che ho vissuto un solo lungo isolamento, una futile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra dentro un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscire mai più“.

Elementi stilistici
L’andamento del testo è paratattico e lo scorrere delle vicende avviene attraverso dialoghi tra una molteplicità di personaggi. Sembra che l’autore voglia replicare il modo di parlare degli abitanti del luogo e la loro mentalità popolana. La narrazione procede per elenchi e per suggestioni quasi casuali, disordinate. Le descrizioni sono appunto immagini improvvise caratterizzate da una tensione decisamente poetica, specie quelle relative alla campagna, al bosco, alla collina.

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Commento
Probabilmente la guerra nel romanzo è percepibile più come sfondo che come centro della storia: maggiore è l’indagine psicologica che emerge del protagonista attraverso il confronto con eventi, personaggi e situazioni. Interessanti alcuni dialoghi, specie quelli con Cate, mentre forse un po’ confusi risultano quelli, a tratti ellittici, con gli altri personaggi sul contesto bellico.

LETTERATURA DAL 1600 AL 1800, LETTERATURA ITALIANA

Lo “Zibaldone” di Leopardi – una sintesi

In questo testo Leopardi espone le teorie letterarie e filosofiche su cui si fonda la sua produzione in prosa e versi. Si tratta di una sorta di diario intellettuale redatto tra il 1817 e il 1832, pubblicato postumo nel 1898.
Il titolo significa “mescolanza confusa di cose diverse“, poiché si tratta di pensieri sparsi, espressi in modo frammentario e asistematico.

L’opera si collega ai testi letterari del poeta; la sua visione prende le mosse dal materialismo e dal sensimo settecenteschi, da cui il poeta ricava la concezione della felicità come uno stato di piacere dei sensi, che è un desiderio infinito; l’uomo non può però raggiungere questo tipo di piacere, perché gli oggetti che lo dovrebbero soddisfare sono finiti. Quindi l’uomo è destinato all’infelicità, placata solo dall’ingenuità fanciullesca e dall’ignoranza del vero.
In una prima fase il pessimismo leopardiano è stato definito storico, in quanto l’uomo era reputato più felice nelle epoche passate, quando non era ancora presente il progresso della ragione ed apparivano molto più forti le illusioni e le immaginazioni, rimedi offerti dalla natura benigna contro l’infelicità.
Di conseguenza l’infelicità moderna è data dall’allontanamento dalla natura, dall’abbandono dell’immaginazione e dal trionfo dell’arido vero. Rispetto all’inerzia e alla corruzione del mondo contemporaneo Leopardi assume un atteggiamento di sfida solitaria e titanica.

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Intorno agli anni 1820-1824 il pessimismo storico evolve in pessimismo cosmico: la natura ora è vista matrigna, l’infelicità è considerata una condizione assoluta e universale, senza tempo. L’atteggiamento non è più di eroica sfida, ma di rassegnata ironia.
Secondo la teoria del piacere, l’immaginazione è l’unica fonte di benessere, in quanto è in grado di fornire un illusorio appagamento rispetto al bisogno infinito del piacere stesso. Quello che produce piacere in poesia sono quindi le immagini e i suoni vaghi e indefiniti, capaci di evocare sensazioni che ci hanno affascinato da piccoli. La poesia è quindi il recupero della visione immaginosa della fanciullezza attraverso la rimembranza. Maestri in questo tipo di poesia sono gli antichi, autori di una poesia ingenua, nutrita di ricordi e di immaginazione. I moderni producono invece una poesia sentimentale e disincantata, che osserva e contempla la miseria della condizione umana.
Nella polemica tra classicisti e romantici Leopardi si schiera a favore dei primi; ai romantici italiani Leopardi rimprovera una eccessiva aderenza al vero e alla ragione. Tuttavia non apprezza nemmeno il classicismo accademico e pedantesco, mentre è nostalgico della poesia antica, reputata felice e immaginosa. Di conseguenza Leopardi considera positivo il recupero dell’antico, del primitivo, reputando i romantici italiani eccessivamente “aridi” e “razionali”. Per l’originalità del suo punto di vista il classicismo leopardiano è stato definito “romantico”.

LETTERATURA DAL 1600 AL 1800, LETTERATURA ITALIANA

“Alla luna” di Leopardi – comprensione, analisi, commento

O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, ché travagliosa
era mia vita: ed è, né cangia stile,
o mia diletta luna. E pur mi giova
la ricordanza, e il noverar l’etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri!

PARAFRASI

O graziosa luna, ricordo che circa un anno fa venivo su questo colle ad ammirarti, pieno di angoscia: e tu allora stavi sospesa su quel bosco come fai anche ora, che lo illumini tutto. Ma il tuo volto appariva nebbioso e tremante a causa del pianto che nasceva sul mio volto, perché la mia vita era addolorata. E lo è ancora e non cambia, o mia adorata luna. Eppure mi piace il ricordo, e il calcolare la durata del mio dolore. Oh come si presenta gradito in gioventù, quando la speranza ha un lungo percorso davanti a sé e la memoria invece è breve, il ricordare le cose passate, anche se sono tristi e anche se il tormento ancora dura.

COMPRENSIONE E ANALISI

Nei primi cinque versi il poeta ricorda una abitudine dell’anno precedente, quando andava ad ammirare la luminosa luna che anche allora rischiarava le selve sottostanti; successivamente, fino al verso 10, il poeta descrive il pianto che offusca l’immagine del satellite lunare, pianto dovuto all’infelicità che contraddistingue l’io lirico. Nonostante questo dolore il poeta predilige il recupero memoriale perché, come spiega nell’ultimo periodo, quando si è giovani il ricordo è comunque gradito, anche se riguarda eventi tristi, perché un giovane ha di fronte a sé il lungo percorso della speranza.
Il poeta si riferisce alla luna quasi come se fosse una persona, attraverso l’apostrofe iniziale “o graziosa luna”. Successivamente, sino almeno al verso 10, la luna viene sempre chiamata in causa o attraverso gesti che il poeta compie in relazione ad essa o attraverso l’atto dell’illuminare, ascritto al satellite stesso. La personificazione è evidente anche osservando i verbi e i sostantivi usati in relazione alla luna: “pendevi”, “fai”, “rischiari”, “volto”. L’apostrofe alla luna si ripete in anastrofe al verso 10 (“o mia diletta luna”). La luna-persona rappresenta così una sorta di compagna per il poeta, una confidente silenziosa ma sempre attenta e presente.

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All’interno del componimento possiamo rintracciare campi semantici diversi e opposti: del dolore e del piacere, quest’ultimo connesso all’idea della visione e del ricordo. Al secondo afferiscono termini come “graziosa”, “rammento”, “rimirarti”, “rischiari”, “apparia”, “diletta”, “giova”, “ricordanza”, “noverar”, “rimembrar”. Notiamo che questo campo semantico di felicità, visione e ricordo, è composto per lo più da forme verbali legate alla memoria, con una fortissima allitterazione della liquida “r”. Gli unici due aggettivi, “graziosa” e “diletta”, sono relativi ovviamente alla luna. Per la sfera del dolore e dell’affanno citiamo termini come “angoscia”, “nebuloso”, “tremulo”, “pianto”, “travagliosa”, “dolore”, “triste”, “affanno”. In questa area semantica osserviamo invece la prevalenza di aggettivi e di sostantivi.
Il componimento è in realtà piuttosto bilanciato sul piano lessicale, oscillando tra piacere e dolore, sebbene si possa forse pensare che la forza del sentimento angoscioso arrivi un po’ ad oscurare il piacere della visione e della memoria.

COMMENTO

Il canto si intitola “Alla luna”, pertanto siamo già proiettati in base al titolo in una dimensione interlocutoria, in una ricerca di un altro a cui confidare sé stessi. L’io lirico intraprende quindi questo dialogo che in verità è un monologo con l’elemento lunare. L’aspetto paesaggistico appare funzionale a tale colloquio e all’espressione dei propri ricordi e del senso di tristezza determinato da quelli. Il panorama coincide sempre con il famoso colle, il monte Tabor, dal quale si vede la selva illuminata dalla luna. Non a caso il medesimo colle, in quanto parte della vita quotidiana del poeta, è anche al centro dell’”Infinito”. In quest’ultimo componimento tuttavia la descrizione insiste di più sull’aspetto paesaggistico e sugli elementi che lo compongono, mentre in “Alla luna” si accenna soltanto alla presenza di un ambiente esterno, cornice degli affannosi pensieri del poeta. Certo anche nell’”Infinito” la caratterizzazione visiva e uditiva del panorama non è fine a sé stessa, ma è rivolta sempre ad un’indagine metafisica, a una riflessione che va oltre la contingenza del momento.
Facendo un confronto con “A Silvia”, vediamo che lì il poeta ricrea un’ ambientazione a lui familiare, sempre utile a contestualizzare la vicenda narrata, ad approfondire riflessioni e a comunicare stati d’animo.
Non troviamo mai una descrizione dettagliata e tecnica del paesaggio, proprio in quanto Leopardi ambisce a quella vaghezza che per lui è essenza dello stile poetico.
In “Alla luna” probabilmente fino al verso 9 si ha il ricordo della visione passata e una maggiore presenza dell’intorno e del paesaggio, seppur vaghi e indefiniti, mentre nei versi successivi l’aspetto più astratto e memoriale prende il sopravvento. Possiamo dunque dire che vi sia una cesura netta proprio a partire dal decimo verso.

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Per quanto riguarda la scelta dell’interlocutore poetico, Leopardi sceglie spesso elementi della natura, sia la “greggia”, sia il “passero solitario”, sia “la luna”. Si rivolge inoltre a Silvia, che è un destinatario umano e tuttavia irraggiungibile in quanto ormai defunta. Il poeta predilige dunque interlocutori che altro non sono se non aspetti di se stesso, della sua meditazione, della sua osservazione. Si tratta di elementi che accompagnano la solitudine del poeta senza però sottrargliela veramente, dunque il dialogo è in sé sempre un monologo, un parlare con se stessi.

Interessante è inoltre il riferimento alla speranza giovanile, tema affrontato anche in “A Silvia”: il percorso dell’esistenza è duro e produce affanno e dolore, tuttavia il ricordo di questi dolori è dolce per chi ha la speranza giovanile di un lungo futuro e la memoria del passato ancora breve. In “A Silvia” vediamo bene però che le speranze della ragazza, che tanto accorano il poeta, sono state facilmente disilluse dalla vita e dalla natura.
In “Alla luna” il riferimento alle speranze è più generico e rimane in sé elemento positivo, volto a bilanciare la durezza del passato e l’affanno della vita.

Raramente al giorno d’oggi un giovane attribuisce un risvolto negativo alla speranza, l’accezione con cui il termine è usato solitamente è positiva. Certo non sempre le speranze ottengono un pieno soddisfacimento e talvolta in questo caso si parla di illusioni, in quanto speranze di difficile realizzazione. La lezione leopardiana consiste forse nel darci un affresco realistico, a tratti volto al pessimismo, della dimensione umana. Per quanto riguarda la speranza abbiamo in Leopardi da un lato l’esaltazione della forza motrice di questo sentimento, capace di rendere dolci anche i ricordi più tristi, dall’altro la percezione della sua precarietà, della sua finitezza, come leggiamo in “A Silvia”.
L’affanno e il dolore non inficiano però il godimento dei ricordi, come “Alla luna” sembra comunicare: forse, in fondo, questo componimento ci insegna l’importanza della capacità, che l’uomo ha o dovrebbe avere, di convivere con il lato dolceamaro dell’esistenza.

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LETTERATURA ITALIANA

Sono una santa non sono una donna: come Manzoni presenta Lucia

Lucia Mondella, uno dei personaggi più noti della letteratura italiana. Una donna del popolo, umile e semplice, che Manzoni descrive con la maestria di un perfetto ritrattista.

In primo luogo vediamo che la protagonista femminile dei Promessi Sposi è presentata dal pensiero che di lei ha Renzo; il giovane infatti ha appena saputo che il suo matrimonio non può essere celebrato e tra molte riflessioni viene colto dal ricordo della sua amata.

“E Lucia?” Appena questa parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo, v’entrarono in folla. Si rammentò degli ultimi ricordi de’ suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madonna e de’ santi, pensò alla consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi senza delitti, all’orrore che aveva tante volte provato al racconto d’un omicidio; e si risvegliò da quel sogno di sangue, con ispavento, con rimorso, e insieme con una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare. Ma il pensiero di Lucia, quanti pensieri tirava seco! Tante speranze, tante promesse, un avvenire così vagheggiato, e così tenuto sicuro, e quel giorno così sospirato! E come, con che parole annunziarle una tal nuova? E poi, che partito prendere? Come farla sua, a dispetto della forza di quell’iniquo potente? E insieme a tutto questo, non un sospetto formato, ma un’ombra tormentosa gli passava per la mente.

Si osserva che la figura di Lucia distoglie immediatamente Renzo dall’idea di commettere un omicidio ai danni dell’odiato don Rodrigo. Si comprende dunque l’importanza che la ragazza ricopre nella vita del giovane e la positività della sua natura viene tracciata fin da subito. A lei si associano gli ultimi ricordi de’ suoi parenti e persino figure sacre, ovvero Dio, la Madonna e i santi. L’immagine di Lucia ricomparsa alla memoria implica tanti pensieri, relativi a un avvenire non ancora definito ma sospirato e immaginato.

F. Cioni, Paese di campagna

Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch’era nel mezzo del villaggio, e, attraversatolo, s’avviò a quella di Lucia, ch’era in fondo, anzi un po’ fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzìo che veniva da una stanza di sopra. S’immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: – lo sposo! lo sposo! – Zitta, Bettina, zitta! – disse Renzo. – Vien qua; va’ su da Lucia, tirala in disparte, e dille all’orecchio… ma che nessun senta, né sospetti di nulla, ve’… dille che ho da parlarle, che l’aspetto nella stanza terrena, e che venga subito –. La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba d’avere una commission segreta da eseguire.

Osserviamo l’abitazione di Lucia: un po’ fuori dal villaggio, con un piccolo cortile cinto da un muretto; si tratta di un luogo umile che con la sua semplicità sembra preannunciare anche l’indole delle sue abitanti. Dall’edificio si sentono dei rumori, un ronzio, probabilmente proveniente dal chiacchiericcio delle amiche della futura sposa. Una ragazzina, Bettina, viene incaricata di chiamare Lucia – non di rado ragazzi giovani ricoprono questi incarichi di “servizio” nel contesto del romanzo.

 Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare.

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Lucia in un’illustrazione dell’edizione del 1840 de I Promessi Sposi

Lucia è vicina alla madre e alle amiche che vogliono vederla “ben vestita” come è, “attillata”. Il nome di Lucia è tipico e molto frequente in quanto è quello di una santa piuttosto nota e Manzoni intende dipingere una realtà quotidiana, concreta e verosimile, per cui attinge i nomi propri dal panorama lombardo e religioso del tempo.

“Mondella” deriva dall’aggettivo “mundus” e dal sostantivo “munditia” quindi richiama all’idea di pulizia, di purezza. La prima caratteristica della giovane appare legata alla personalità, infatti viene definita modesta, ritrosa, pudica, poiché si vergogna a mostrarsi alle astanti nel suo abbigliamento da festa. Mentre aggrotta le sopracciglia, però, fa un leggero sorriso, che ci fa intuire uno stato d’animo comunque gioioso. Il primo dettaglio fisico, quasi l’unico, enunciato, è relativo al colore dei capelli e all’acconciatura della ragazza, tipica delle contadine del milanese. Vediamo inoltre l’abbigliamento completo, rappresentato con intento documentario dall’autore, al quale sta molto a cuore la verosimiglianza di quanto racconta. La giornata da futura sposa colora sul viso di Lucia una certa gioia e un leggero turbamento, tipico delle donne pronte al grande passo del matrimonio. Possiamo definire Lucia una bella ragazza? La bellezza è “modesta”, accresciuta dalle emozioni provate in quel particolare momento.

La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s’accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all’orecchio. – Vo un momento, e torno, – disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, – cosa c’è? – disse, non senza un presentimento di terrore. – Lucia! – rispose Renzo, – per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser marito e moglie. – Che? – disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, – ah! – esclamò, arrossendo e tremando, – fino a questo segno! – Dunque voi sapevate…? – disse Renzo. – Pur troppo! – rispose Lucia; – ma a questo segno! – Che cosa sapevate? – Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a licenziar le donne: bisogna che siam soli. Mentre ella partiva, Renzo sussurrò: – non m’avete mai detto niente. – Ah, Renzo! – rispose Lucia, rivolgendosi un momento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri?

Renzo parla con Lucia: il matrimonio è rimandato - I Promessi Sposi cap. II
Renzo parla con Lucia: il matrimonio è rimandato – I Promessi Sposi cap. II

Vediamo come si relaziona Lucia con il suo promesso sposo: sembra sicuramente intuitiva, perché comprende che c’è qualcosa di strano nel comportamento di Renzo, e quel qualcosa le instilla subito un presentimento di terrore. Lucia realizza immediatamente la difficoltà della situazione e agisce in modo deciso. Il dialogo con Renzo è serrato, ma è evidente anche la reticenza di Lucia la quale però fa capire al giovane che non avrebbe potuto parlare in ogni caso e che il silenzio aveva motivazioni più che giuste, persino “pure”.