Il libro delle Rime di Giovanni Della Casa si chiude con un sonetto che invita alla contemplazione del Creato; lascia aperto un interrogativo e prevede un invito implicito ad affidarsi a una maestà divina che è stata così grande nella sua opera. La concezione dell’Universo è panteistica.
Questa vita mortal, che ‘n una o ‘n due brevi e notturne ore trapassa, oscura e fredda; involto avea fin qui la pura parte di me ne l’atre nubi sue.
Or a mirar le grazie tante tue prendo: ché frutti e fior, gelo ed arsura, e sí dolce del ciel legge e misura, eterno Dio, tuo magisterio fue.
Anzi ‘l dolce aer puro, e questa luce chiara, che ‘l mondo a gli occhi nostri scopre, traesti tu d’abissi oscuri e misti.
E tutto quel che ‘n terra o ‘n ciel riluce, di tenebre era chiuso, e tu ‘apristi; e ‘l giorno e ‘l Sol de le tue man son opre.
Parafrasi
Questa vita mortale, che passa in una / o in due brevi ore notturne oscura e /fredda; aveva avvolto fin qui la parte più pura di me / nelle sue nubi nere.
Ora inizio ad osservare le tue tante grazie, perché i frutti e i fiori / il gelo e il caldo e una così dolce legge e misura del cielo / furono tuo magistero, o eterno Dio.
Anzi tu hai sottratto dagli abissi oscuri e tenebrosi / la dolce aria pura e questa luce chiara / che svela il mondo ai nostri occhi.
E tutto ciò che in cielo e terra risplende / era chiuso nelle tenebre e tu l’hai aperto; / e il giorno e il sole sono opere delle tue mani.
Commentoal contenuto
Nella prima quartina sembra che il poeta esprima il tradizionale concetto della fuga del tempo; ma la vita mortale, così breve, aveva un carattere oscuro, e sembrava aver avvolto l’autore nella sua parte più pura, corrompendolo. Nella seconda quartina notiamo uno stacco cronologico, infatti si osserva la congiunzione temporale “ora”: adesso il poeta osserva tutte le bellezze della vita, oggetto della creazione divina.
Le terzine proseguono la celebrazione del creato, opera di Dio, che viene sostanzialmente celebrato come grande Fattore della luce, intesa non solo nel senso letterale, ma probabilmente anche in modo metaforico. La luce dunque potrebbe significare la positività della vita mortale, la serenità e tutto ciò che di bello esiste, intimamente connesso al divino. Vediamo il gioco di luci e ombre, l’ombra connessa al peccato e alla notte, la luce che invece allude al sole, al giorno, all’aria dolce e pura.
In Della Casa è possibile osservare una certa ricercatezza nelle desinenze, un enjambement, e la singolarità del trapasso dalla prima e seconda quartina e dalla prima e seconda terzina: infatti nella seconda quartina si passa dall’esperienza personale a una dimensione più vasta, mentre nel passaggio tra le terzine c’è continuità perfetta.
Rime: arsura v. 6-misura v. 7 (rima ricca, in comune c’è -ura ma anche la -s) / scopre v. 10 – opre v. 14 (rima inclusiva)
v.1: questa vita mortal richiama alla prosa del Cortegiano di Castiglione, in cui talvolta si incastrano degli endecasillabi
V. 5 Iperbato
Nubi nere: rimando a carmi di Orazio (Carmina 16,2) in cui si parla di atra nubes
V. 11: Richiamo a vecchio testamento (Genesi, I, 2) Et tenebrae erant super faciem abyssi; è l’inizio della Bibbia, in cui si parla di stato primordiale a cui si contrappone poi la grandezza della creazione. Osserviamo anche Genesi, I,5 Et divist lucem a tenebris.
Fedeltà e lealtà sono virtù lodevoli? L’integrità, la pietà, l’umanità sono necessarie a chi governa?
Nel capitolo XVIII de “Il Principe”, trattato storico-politico scritto nel 1513, Machiavelli ci racconta il suo punto di vista basandosi sulla propria esperienza di cancelliere della Repubblica fiorentina.
Ecco quali sono in sintesi i punti che emergono dalla sua trattazione:
QUOMODO FIDES A PRINCIPIBUS SIT SERVANDA (IN CHE MISURA I PRINCIPI DEBBANO MANTENERE LA PAROLA DATA)
Sempre auspicabile per un principe è mantenere la “fede”, ovvero essere leale rispetto alla parola data. Tuttavia per esperienza si vede come sia stato più proficuo per i principi agire con l’astuzia, ovvero in malafede, piuttosto che tener conto delle promesse fatte.
Ci sono due modi di combattere: uno con le leggi, tipicamente umano, l’altro con la forza, che è proprio delle bestie. Ma quando l’uomo non riesce ad osservare il primo, deve ricorrere al secondo. Entrambe le nature, quella umana e quella bestiale, sono necessarie. Molti scrittori antichi dicono che Achille e altri principi furono affidati alle cure del centauro Chirone, metà uomo e metà cavallo: ciò evidenzia la necessità della parte animalesca insita nell’uomo.
Per quanto riguarda la bestia, è opportuno prendere spunto dalle caratteristiche della volpe e del leone. Il leone spaventa i lupi con la forza, mentre la volpe sa divincolarsi dai lacci con l’astuzia. La forza senza l’astuzia non ha la medesima efficacia. Non vi è necessità di mantenere la parola data qualora vengano meno le condizioni iniziali: questo perché l’uomo è sleale di natura e malvagio, quindi non osserverebbe i patti, per cui è utile che anche il principe li violi ove necessario. Essere astuti è importante e anche saper fingere bene e mascherare l’astuzia stessa: è infatti facile ingannare gli uomini, spesso molto ingenui.
Alessandro VI fu sempre abile e capace nell’ingannare il prossimo.
Il principe non deve avere tutte le qualità positive, ma deve sembrare che le abbia. Anzi è opportuno che non abbia affatto alcune qualità, ad esempio non deve essere davvero pietoso, fedele, umano, onesto, religioso, ma deve solo sembrarlo. Il principe può agire contro la fede, la carità, l’umanità, la religione, qualora vi sia necessità, in base agli eventi.
Il principe deve sembrare tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione. Gli uomini si fermano all’apparenza e pochi “sentono” quello che si è davvero. Il dovere del principe è mantenere lo Stato: ogni mezzo per arrivare a questo fine è onorevole e lodevole.
Il testo di Machiavelli è molto preciso e concreto, doveva infatti essere immediatamente comprensibile e fruibile dal lettore. Per cui gli aspetti teorici vengono messi da parte per focalizzarsi maggiormente sull’esperienza pratica, che è una maestra sicura nel campo politico. Per questo l’autore usa strategie stilistiche fortemente incisive:
Appello ai lettori con il “voi”, al principe con il “tu”
L’uso di metafore tratte dal mondo animale
Frasi brevi e sentenziose
Uso di imperativi e congiuntivi esortativi
Uso di espressioni di necessità, bisogno ecc. (“è necessario”, “bisogna”, “si deve”)
Presenza di congiunzioni con valore conclusivo (“dunque”, “pertanto”, “però” con valore di “perciò”)
IL RIFERIMENTO AGLI ANIMALI
In verità il riferimento alla volpe e al leone è presente già in Cicerone nel De officiis, solo che l’inganno e la forza non vengono viste in positivo nel filosofo classico.
In Dante la volpe assume valenza simbolica, allude alle eresie nel Purgatorio, e il simbolo è appunto negativo; anche i Centauri nell’Inferno hanno qualcosa di demoniaco e la loro natura non viene apprezzata.
Al contrario in Machiavelli il lato animalesco è insito nell’uomo ed è indispensabile al principe quando debba proteggere lo Stato.
Machiavelli non nega che esista il bene, ma afferma che a volte sia necessario prescindere da esso. L’autore considera la verità effettuale delle cose, invece di soffermarsi su come dovrebbero essere; è consapevole del valore morale del bene, ma si limita a constatare che talvolta è necessario sacrificarlo in nome del mantenimento della pace e della stabilità politica.
Osserviamo il sistema dei personaggi nella favola pastorale Aminta di Tasso. I nomi e i protagonisti appartengono chiaramente al mondo greco: Dafne, Silvia, Aminta, satiro ecc. La presenza del prologo ci rimanda anch’essa al dramma greco, fatto del resto comunissimo: nel Rinascimento il debito con il mondo classico è forte, e persino il teatro successivo ne rimane influenzato.
INTERLOCUTORI
AMORE, che fa il prologo
DAFNE
SILVIA
AMINTA
TIRSI
ELPINO
SATIRO
NERINA
ERGASTO, ovvero NUNCIO
CORO DE’ PASTORI
La prima rappresentazione dell’opera ebbe luogo con buone probabilità il 31 luglio 1573, al Belvedere di Ferrara. La prima stampa risale al 1580. La prima rappresentazione non contiene uno degli episodi, quello di Mopso.
Ma cos’è una favola pastorale? Vediamo che l’espressione allude alla “fabula”, che in latino significa “testo drammatico” e al mondo dei “pastori”. Si trattava di una forma teatrale molto in voga tra gli autori dell’Umanesimo e del Rinascimento (specie nel contesto della corte ferrarese), la quale affonda le sue radici nella poesia pastorale latina (Virgilio e Teocrito). Vediamone le differenze con la commedia e la tragedia:
COMMEDIA
Vicenda comica di ambientazione cittadina, con esito felice
FAVOLA PASTORALE
Temi sentimentali e seri, ambientati in un mondo favoloso; conclusione felice
TRAGEDIA
Temi patetici e vicende drammatiche, conclusione molto infelice; tono alto e sublime
“PAESAGGIO CON PASTORI E ARMENTI E FIGURE DI POPOLANI IN SOSTA PRESSO UN FONTANILE”, Scuola romana, secolo XVIII, olio su tela, cm 119 x 177,5
STRUTTURA E METRO
Cinque atti; versi endecasillabi e settenari.
INTENZIONIDELL’AUTORE
Il poeta celebra la vitalità dell’amore, la libertà degli impulsi e offre una proiezione idealizzata della corte ferrarese: egli infatti cela dietro ad alcuni protagonisti dei personaggi reali, ad esempio dietro Tirsi si nasconderebbe lo stesso autore, mentre Elpino evocherebbe la figura del segretario ducale Giovan Battista Pigna.
L’azione non avviene in scena, ma è il risultato dei racconti fatti dai vari personaggi.
SINTESI DELLE SCENE
PROLOGO
Amore, personificato e sotto “pastorali spoglie”, si presenta e presenta tutto il suo divino potenziale. Il fanciulletto si lamenta perché la madre Venere vorrebbe condizionarlo riguardo all’uso dell’arco e delle frecce, mentre il dio intende farne ciò che crede:
Io, che non son fanciullo, se ben ho volto fanciullesco ed atti, voglio dispor di me come a me piace: ché a me fu, non a lei, concessa in sorte la face onnipotente e l’arco d’oro.
Per sfuggire alla madre Amore trova riparo “ne’ boschi e ne le case de le genti minute”. Con la sua “face infiammata” (così appare la sua arma) intende far innamorare la ninfa Silvia, riottosa all’amore. Eros non si cura dell’estrazione sociale delle sue vittime, e colpisce ugualmente pastori ed eroi:
Spirerò nobil sensi a’ rozzi petti, raddolcirò de le lor lingue il suono, perché, ovunque i’ mi sia, io sono Amore, ne’ pastori non men che ne gli eroi, e la disagguaglianza de’ soggetti, come a me piace agguaglio.
Le Ninfe (greco antico: Νύμφη Nymphē, lett. “fanciulle” o “spose”) sono delle dee della religione greca; rappresentano le potenze divine dei boschi, dei monti, delle acque e delle sorgenti, degli alberi.
“Ninfe e satiro” di William-Adolphe Bouguereau, 1873
Vediamo che nel prologo Amore dà l’avvio alla vicenda, perché racconta della sua intenzione di cambiare l’atteggiamento aspro ed ostile della ninfa Silvia, che così subirà un’evoluzione.
ATTO PRIMO, SCENA PRIMA – Dafne e Silvia.
Dafne, amica di Silvia, tenta di convincerla a cedere alle lusinghe dell’amore, che le porterà la gioia di un figlio; ma la ninfa è decisa, il suo passatempo consiste solo nella “cura de l’arco e de gli strali”, nel “seguir le fere fugaci”, “e le forti atterrar combattendo”. Ma Dafne replica con una sentenza divenuta proverbiale:
Forse, se tu gustassi anco una volta la millesima parte de le gioie che gusta un cor amato riamando, diresti ripentita, sospirando: « perduto è tutto il tempo che in amar non si spende: o mia fuggita etate, quante vedove notti, quanti dì solitari ho consumati indarno, che si poteano impiegar in quest’uso, il qual più replicato è più soave! »
Dafne riporta la sua esperienza: all’inizio anch’ella sentiva sdegno e vergogna di fronte a coloro che provavano amore per lei, infine però fu lei stessa ad essere vinta da questo sentimento. Dunque Dafne non si spiega da dove nasca l’odio di Silvia per il pastore Aminta, figlio di Silvano. L’amica spiega così ciò che prova:
Silvia– Faccia Aminta di sé e de’ suoi amori quel ch’a lui piace: a me nulla ne cale, e, pur che non sia mio, sia di chi vuole: ma esser non può mio s’io lui non voglio; né s’anco egli mio fosse, io sarei sua.
Dafne– Onde nasce il tuo odio?
Silvia– Dal suo amore.
“Ninfa 1”, Silvia Ridolfi, 2017, Acquerello 35 x 55 cm
ATTO PRIMO, SCENA SECONDA – Aminta e Tirsi
Come afferma Tirsi, amico di Aminta, l’amore si nutre di lacrime:
Pasce l’agna l’herbette, il lupo l’agne,
Ma il crudo amor di lagrime si pasce, Nè se ne mostra mai satollo.
Aminta racconta a Tirsi di aver conosciuto Silvia da bambino e aver cacciato a lungo con lei; ad un tratto però si era accorto di provare un “incognito affetto” che lo spingeva a cercare sempre la compagnia della ninfa:
Sospirava sovente, e non sapeva La cagion de’ sospiri. Così fui prima Amante, ch’intendessi, Che cosa fosse Amore.
Aminta racconta che un giorno grazie alla sua bocca e ad alcune magiche parole Silvia fece passare all’amica Fillide il dolore per una puntura d’ape. Aminta volle quindi avere un bacio dalla sua bella e perciò finse di essere stato punto da un’ape sul labbro.
Un giorno Aminta decise di dichiarare apertamente il suo amore, ma la reazione della ninfa non fu incoraggiante:
Silvia, le dissi, io per te ardo, e certo Morrò se non m’aiti. A quel parlare Chinò ella il bel volto, e fuor le venne Un’improviso, insolito rossore, Che diede segno di vergogna, e d’ira; Né hebbi altra risposta, che un silentio, Un silentio turbato, e pien di dure Minaccie.
Silvia lo evita da quel di’ e Aminta si dichiara disposto a morire pur di suscitare in lei una qualche reazione.
CORO
Nel coro dei pastori si canta la felice età dell’oro, dove tutto nasceva in modo dolce e spontaneo e si agiva liberamente seguendo la norma del “se piace, è lecito”; al contrario l’onore, le regole della vita sociale, ingabbiano i liberi impulsi umani:
Ma sol, perché quel vano
Nome senza soggetto, Quell’Idolo d’errori, idol d’inganno, Quel, che dal volgo insano Honor poscia fu detto, Che di nostra natura ’l feo tiranno, Non mischiava il suo affanno Frà le liete dolcezze De l’amoroso gregge, Nè fù sua dura legge Nota à quell’alme in libertate avvezze, Ma legge aurea, e felice, Che natura scolpì, S’ei piace, ei lice.
L’onore ha spinto a nascondere la bellezza, a reprimere gli istinti e la ricerca del piacere.
ATTO SECONDO, SCENA PRIMA – Satiro
Un satiro, attratto da Silvia, matura la decisione di usarle violenza. Spiega le sue intenzioni attraverso un monologo.
Tirsi parla della naturalezza con cui le donne apprendono l’arte del sembrare belle, del piacere ad altri:
Ma, quale è così semplice fanciulla,
Che, uscita da le fascie, non apprenda L’arte del parer bella, e del piacere, De l’uccider piacendo, e del sapere Qual arme fera, e qual dia morte, e quale Sani, e ritorni in vita.
Dafne è al contrario molto preoccupata e non crede che sia facile persuadere Silvia; così si esprime poi sulle donne:
Hor, non sai tu, com’è fatta la donna? Fugge, e fuggendo vuol, che altri la giunga; Niega, e negando vuol, ch’altri si toglia; Pugna, e pugnando vuol, ch’altri la vinca.
Dafne consiglia a Tirsi che Aminta si rechi alla fonte di Diana, dove troverà lei stessa e la ninfa Silvia.
ATTO SECONDO, SCENA TERZA – Aminta e Tirsi
Tirsi spiega ad Aminta che troverà l’amata “ignuda e sola” presso una fonte; la presenza di Dafne con lei sarà positiva e di aiuto. Tirsi convince Aminta, esitante, dicendo che “nulla fa, chi troppe cose pensa”:
CORO
Celebrazione di amore, degno maestro di se stesso. Infatti ad amare non si impara a scuola, ma con l’esperienza.
ATTO TERZO, SCENA PRIMA – Coro e Tirsi
In un confronto con il coro, Tirsi si dice preoccupato che Aminta voglia darsi la morte, vinto dal dolore per l’amore non ricambiato da Silvia, e dall’odio che lei gli dimostra. Tirsi racconta poi la vicenda dell’incontro tra Aminta e Silvia presso la fonte di Diana: la ninfa era stata assalita da un satiro che intendeva usarle violenza. Al suo arrivo, Aminta lo colpisce con un dardo e libera le mani di Silvia, che però non gli dimostra riconoscenza e fugge via.
ATTO TERZO, SCENA SECONDA – Aminta, Dafne e Nerina
Mentre Dafne consola Silvia, sopraggiunge Nerina, una ninfa amica, che si dice foriera di cattive notizie. Silvia è stata assalita da alcuni lupi, e verosimilmente questi l’hanno uccisa. A prova di quanto dice ha condotto con sé il velo di Silvia stessa. Aminta sviene e poi dice di volersi dare la morte.
Compare Silvia, che spiega come in realtà sia riuscita a salvarsi; saputo che Aminta intende uccidersi è colta da pietà e da pentimento per la sua passata crudeltà. Vorrebbe comprare la vita di Aminta con la sua.
ATTO QUARTO, SCENA SECONDA – Nuncio, Coro, Silvia, Dafne
Il nuncio dichiara l’avvenuta morte di Aminta, che si è gettato giù da un precipizio; Silvia ne rimane fortemente impressionata e sembra decisa ad abbandonare anch’essa la vita.
ATTO QUINTO, SCENA PRIMA – Elpino, Coro
Il saggio Elpino dà al coro una bella notizia: la caduta di Aminta non è stata fatale, perché è atterrato in primo luogo su un fascio di erbe, rami e spini. In quel momento sopraggiungono anche Silvia e Dafne, e la ninfa, visto l’innamorato ancora in vita, inizia a baciarne le labbra.
Scena del’Aminta di Tasso in un affresco anonimo cinquecentesco, autore ignoto, Villa Caldogno, Vicenza
CORO
Celebrazione finale dell’amore, che dà dolori ma anche gioie.
Nel 1494 Ludovico Ariosto, appartenente ad una nobile famiglia bolognese che da lungo tempo si trovava a Ferrara al servizio degli Estensi, interrompeva gli studi di diritto per dedicarsi all’approfondimento dei suoi interessi letterari. Pare che nel 1494, il poeta scrivesse, ispirandosi ad Orazio, un’ode latina dal titolo Ad Philiroen:
Che cosa appresti Carlo colle navi e coi cavalli delle Gallie, minacciando rovina alle torri d’Italia col furore tremendo dei guerrieri crudeli; e ancora, come cerchi di provvedere a sé il suo nemico, di questo non mi tocchi alcun pensiero, mentre giaccio sotto un albatro, al murmure di una cascatella; e intanto le bionde messi affaticano Coridone gagliardo. O Filiroe, se vuoi, come più volte mi dicesti, che io ricambi il tuo amore, fa che le tempie del tuo amante, umide di vino, cinga una ghirlanda screziata di fiori purpurei, che tu abbia intrecciato colle candide mani, e meco, stesa su queste zolle, canta soavemente al suono della cetra.
Il Carlo menzionato da Ariosto è Carlo VIII; anche se viene inserito nella stilizzazione di un esercizio letterario, tuttavia appare significativo che il soggetto del vocativo sia proprio il re di Francia, che è descritto mentre si sta preparando a calare in Italia, minacciando rovina alle torri ausonie. Nella prima stesura di questa ode, intitolata De vita quieta ad Philiroen, il poeta inveiva anche contro i miseri, quibus vesana mens est vendere sanguine mauro suum: ovvero contro coloro che nutrono il pensiero insano di vendere a prezzo il loro sangue, i mercenari. Il poeta, seguendo certo un motivo classico, afferma di non voler essere toccato dal pensiero della preparazione di questi eventi bellici.
Carlo VIII a cavallo, “en imperant roy”, circa 1495-98 -Di Sconosciuto – Questa immagine è resa disponibile dalla biblioteca digitale Gallica con il numero identificativo di btv1b8426259s/f15, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=76552837
Quale era la situazione dell’Italia nel Quattrocento? Mentre gli stati esteri, come Francia, Inghilterra e Spagna, avevano iniziato quel processo di unificazione territoriale che li aveva portati alla formazione di grandi monarchie nazionali, in Italia trionfava il principio dell’equilibrio tra i principali Stati regionali (ducato di Milano, repubblica di Venezia, repubblica di Firenze, Stato pontificio e regno di Napoli). La penisola versava, al di là degli splendori dell’arte rinascimentale, in uno stato di profonda crisi, la quale aveva diverse sfaccettature. Era infatti:
Una crisi morale: la civiltà del Rinascimento aveva preso le distanze dallo spiritualismo di origine medievale, ed esaltava valori antitetici a quelli del passato (si pensi all’individualismo, al libertinismo delle corti ecc.);
Una crisi politica: in realtà il sistema dell’equilibrio inaugurato con la pace di Lodi aveva reso centrale, agli occhi dei principi, l’attività diplomatica, e li aveva condotti a sottovalutare l’importanza delle capacità militari;
Ne consegue una crisi militare: eccettuata Venezia, gli altri Stati disponevano solo di poche migliaia di mercenari, ed erano indietro rispetto agli altri paesi nella tecnica militare;
Crisi economica: l’espansione ottomana aveva reso pericolose le vecchie rotte per le Indie, danneggiando l’economia italiana; ben presto l’apertura delle rotte atlantiche l’avrebbe compromessa definitivamente.
Esisteva una sostanziale diffidenza tra Stati e una scarsa dialettica politica anche all’interno di un medesimo Stato, per cui il confronto delle posizioni assumeva spesso il carattere della congiura. Si susseguirono congiure (la più rilevante è quella dei Pazzi a Firenze) e guerre, tra cui il conflitto scatenato da Venezia per impadronirsi del Ducato estense di Ferrara, feudo del papa. A Venezia si opposero Firenze, Napoli, Milano, Bologna e Mantova, per cui la guerra di Ferrara si concluse con la pace di Bagnolo, con la quale Ferrara restava indipendente, ma cedeva a Venezia il Polesine. La morte, nel 1492, di Lorenzo il Magnifico determinava la scomparsa del principale protagonista della politica dell’ “equilibrio”.
Nel 1476 una congiura nobiliare a Milano si era conclusa con l’uccisione del duca Galeazzo Maria Sforza a cui era succeduto il figlio Gian Galeazzo II; tuttavia il vero detentore del potere era suo zio Ludovico il Moro, che lo teneva in una condizione di emarginazione rispetto agli affari del governo, suscitando la reazione del suocero di Gian Galeazzo stesso, il re di Napoli Ferrante; poiché la figlia di Ferrante e Gian Galeazzo avevano avuto un figlio, il re di Napoli poteva avere mire giustificate verso il ducato di Milano. Per contrastare gli Aragonesi, Ludovico il Moro chiamò in soccorso il re di Francia Carlo VIII, sollecitandolo a far valere le pretese angioine sul Regno di Napoli (dal quale gli angioini erano stati cacciati nel 1442). Il re di Francia era il sovrano di uno Stato forte, che si era consolidato ulteriormente assorbendo la Borgogna, i ducati di Angiò e la Bretagna. Il coinvolgimento della Francia nelle questioni italiane rese evidenti la debolezza e la frammentazione politica degli Stati d’Italia, inaugurando un lungo periodo di conflitti tra le potenze europee per il controllo della penisola.
Osserviamo che l’incipit della Storia d’Italia di Guicciardini descrive il periodo successivo al 1494 come tempo di decadenza, segnalando come in effetti anche i contemporanei sentirono l’evento della discesa in Italia di Carlo VIII come un momento di cesura rispetto al passato. In questi termini parla Guicciardini:
Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia, dappoi che l’armi de’ franzesi, chiamate da’ nostri prìncipi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla […].
Guicciardini sottolinea la responsabilità dei principi nell’intervento delle armi francesi; lo storico aggiunge in seguito che i potenti spesso guardano ai propri desideri del momento, non ricordando che la fortuna è volubile e può cambiare facilmente lo stato di cose. Per la loro eccessiva ambizione e per la scarsa prudenza che li caratterizza dunque provocano ulteriori turbazioni, danneggiando coloro su cui governano:
onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da’ venti, siano sottoposte le cose umane; quanto siano perniciosi, quasi sempre a se stessi ma sempre a’popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano, quando, avendo solamente innanzi agli occhi o errori vani o le cupidità presenti, non si ricordando delle spesse variazioni della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la potestà conceduta loro per la salute comune, si fanno, o per poca prudenza o per troppa ambizione, autori di nuove turbazioni.
Molto interessante sarà inoltre considerare la descrizione che Guicciardini fa degli anni anteriori al 1494, sottolineando in particolare che l’anno 1490 (si noti che è precedente alla morte di Lorenzo) coincideva con una situazione particolarmente prospera e felice:
Ma le calamità d’Italia (acciocché io faccia noto quale fusse allora lo stato suo, e insieme le cagioni dalle quali ebbeno l’origine tanti mali) cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora più liete e più felici. Perché manifesto è che, dappoi che lo imperio romano, indebolito principalmente per la mutazione degli antichi costumi, cominciò, già sono più di mille anni, di quella grandezza a declinare alla quale con maravigliosa virtù e fortuna era salito, non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile quanto era quello nel quale sicuramente si riposava l’anno della salute cristiana mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti. Perché, ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno ne’ luoghi più montuosi e più sterili che nelle pianure e regioni sue più fertili, né sottoposta a altro imperio che de’ suoi medesimi, non solo era abbondantissima d’abitatori, di mercatanzie e di ricchezze; ma illustrata sommamente dalla magnificenza di molti prìncipi, dallo splendore di molte nobilissime e bellissime città, dalla sedia e maestà della religione, fioriva d’uomini prestantissimi nella amministrazione delle cose pubbliche, e di ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte preclara e industriosa; né priva secondo l’uso di quella età di gloria militare e ornatissima di tante doti, meritamente appresso a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva.
Osserviamo dunque la risonanza immediata che ebbe l’evento della discesa in Italia di Carlo VIII.
Frontespizio di un’antica edizione della Storia d’Italia
Il 1506: la congiura di Giulio e Ferrante contro i fratelli Ippolito e Alfonso d’Este.
Sarà interessante vedere un episodio che coinvolse la famiglia degli Estensi di Ferrara per dare l’idea del clima di intrighi e di rivalità che si respirava a corte. Giulio d’Este era figlio naturale del duca Ercole d’Este, e crebbe alla corte insieme ai fratellastri, i figli legittimi del duca; tra questi erano Alfonso I, successore del padre, e il cardinale Ippolito. Tra Giulio e il cardinale vi furono spesso scontri, per lo più per futili motivi: una contesa per avere al proprio servizio un musicista, la rivalità per ottenere l’amore di Angela Borgia, cugina della celebre Lucrezia. In seguito a questi screzi, Ippolito ordinò ai suoi uomini di assalire il fratellastro e di sfregiarlo; gli scherani del cardinale riuscirono a ferire Giulio agli occhi. Alfonso lasciò Ippolito impunito, e diede alle altre corti un resoconto non del tutto veritiero della vicenda. Se ci fu una formale riappacificazione tra Giulio e Ippolito, questa tuttavia non aveva cancellato il rancore di Giulio verso i fratelli; così egli, spronato dall’altro fratello, Ferrante, che intendeva sostituirsi al Duca, organizzò un complotto, insieme ad altri signori, per eliminare Alfonso ed Ippolito. Il piano fallì, e Giulio trovò protezione presso la corte di Francesco Gonzaga; successivamente, dopo un processo sommario, Giulio, Ferrante e gli altri cospiratori furono condannati a morte per il progetto della congiura. La pena per i due fratelli fu poi commutata nella reclusione a vita. Giulio sarebbe uscito dal carcere nel 1559, ottenendo la grazia dal pronipote Alfonso II d’Este.
Ariosto era divenuto cortigiano stipendiato del duca Ercole I a partire dal 1497; alla morte del padre aveva assunto la tutela dei fratelli minori ed iniziato ad occuparsi dell’amministrazione del patrimonio familiare. Nell’ottobre del 1503 entrò al servizio del cardinale Ippolito come “familiare”, diventando in seguito anche chierico. Al momento della congiura, dunque, Ariosto era stipendiato da Ippolito. La vicenda suggestionò molto il poeta, al punto da spingerlo a scrivere in proposito un’egloga, e a farne menzione all’interno dell’Orlando Furioso, (III, ottave 60-62):
Così con voluntà de la donzella
la dotta incantatrice il libro chiuse.
Tutti gli spirti allora ne la cella
spariro in fretta, ove eran l’ossa chiuse.
Qui Bradamante, poi che la favella
le fu concessa usar, la bocca schiuse,
e domandò: – Chi son li dua sì tristi,
che tra Ippolito e Alfonso abbiamo visti?
61
Veniano sospirando, e gli occhi bassi
parean tener d’ogni baldanza privi;
e gir lontan da loro io vedea i passi
dei frati sì, che ne pareano schivi. –
Parve ch’a tal domanda si cangiassi
la maga in viso, e fe’ degli occhi rivi, e gridò: – Ah sfortunati, a quanta pena
lungo istigar d’uomini rei vi mena!
62
O bona prole, o degna d’Ercol buono, non vinca il lor fallir vostra bontade:
di vostro sangue i miseri pur sono;
qui ceda la iustizia alla pietade. – Indi soggiunse con più basso suono:
– Di ciò dirti più inanzi non accade.
Statti col dolce in bocca; e non ti doglia
ch’amareggiare al fin non te la voglia.
Osserviamo che la posizione di Ariosto è favorevole ai suoi protettori: infatti il poeta, seppure in modo bonario, sottolinea da un lato la colpevolezza dei congiurati, dall’altro la bontà dei signori Alfonso ed Ippolito.
Ariosto e gli incarichi ufficiali. Francia e Spagna alla conquista dell’Italia
In quanto familiare di un cardinale, toccarono ad Ariosto numerosi incarichi pubblici e missioni diplomatiche. Questo lo rendeva certo un personaggio attivo, da un punto di vista politico, anche se le sue attività al servizio degli Estensi contrastavano con la sua indole di scrittore, naturalmente tesa alla solitudine e alla riflessione; la vita “attiva”, insomma, limitava il tempo di quella “contemplativa”, impedendo a volte al poeta di compiere progressi nella stesura del suo capolavoro, l’Orlando furioso, iniziato nel 1505.
Ariosto compie varie missioni diplomatiche presso il papa Giulio II nel quadro delle guerre che vedono impegnati gli Estensi contro Venezia. La prima risale al luglio 1509, quando si reca a Roma per perorare la causa dei propri signori, accusati di essere troppo riverenti verso Luigi XII di Francia; nel dicembre dello stesso anno il poeta dovrà tornare dal papa a chiedere il soccorso delle truppe pontificie per la guerra in corso contro i veneziani. Di una battaglia contro Venezia, in cui pare che il cardinale Ippolito si fosse distinto, ci parla anche Ariosto in una ottava del Furioso (XXXVI, ottava 2),:
Ariosto, tornato a Ferrara, dovette presto ripartire alla volta di Roma per calmare l’ira di Giulio II causata anche dal proseguimento, da parte degli Estensi, della guerra contro Venezia, con la quale il papa stesso aveva invece ratificato la pace. Ancora nel 1510, come ci racconta Ariosto nella Satira I (v. 153), Ippolito lo inviò per ben due volte a placare la grande ira di Secondo; il contrasto della casa d’Este con il papa diverrà poi insanabile nel 1512. L’elezione di papa Leone X, seguita alla morte di Giulio II, portò gli Estensi a sperare in un miglioramento dei rapporti con la corte pontificia e Ariosto a confidare di ottenere un ufficio che gli concedesse maggiore tranquillità per i propri otia letterari.
Finalmente, nel 1516, comparve a stampa la prima edizione del Furioso contenente la seguente dedica nel primo canto:
3
Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro, Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel ch’io vi debbo, posso di parole
pagare in parte e d’opera d’inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.
4
Voi sentirete fra i più degni eroi,
che nominar con laude m’apparecchio,
ricordar quel Ruggier, che fu di voi
e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L’alto valore e’ chiari gesti suoi
vi farò udir, se voi mi date orecchio,
e vostri alti pensieri cedino un poco,
sì che tra lor miei versi abbiano loco.
Nonostante la dedica e l’esaltazione di Ippolito, questi non si profuse in lodi, e anzi, di fronte al rifiuto del poeta di seguirlo in Ungheria nel 1517 pensò bene di licenziare Ariosto. Il poeta descrisse diffusamente nella Satira I, indirizzata al fratello Alessandro e a Ludovico da Bagno, le ragioni del suo diniego, legate a motivi familiari e di salute. La satira II al fratello Galasso, quasi contemporanea alla prima, testimonia il difficile momento economico in cui si trova il poeta, privato dal cardinale di alcuni benefici.
La situazione migliora quando, a partire dal 1518, Ariosto entra a far parte dei salariati del duca Alfonso come familiare; dopo un periodo di relativa tranquillità la situazione per l’Ariosto si complicò nuovamente in seguito alle nuove guerre che coinvolsero la casa d’Este contro le truppe di Leone X, che premevano alle porte di Ferrara: Alfonso fu costretto a sospendere lo stipendio ad Ariosto e ad altri cortigiani, fino a che la morte del papa non permise al Duca di riconquistare tutti i territori perduti. Nel 1522 Alfonso nominò Ariosto commissario della Garfagnana, espediente che gli consentiva di demandare a quella provincia l’onere del suo pagamento e di assegnare ad un uomo di fiducia il controllo di un’area turbolenta e infestata dai briganti come la Garfagnana stessa. Di questo periodo difficile, di lontananza dall’amata Alessandra Benucci e di impossibilità di impiegare il suo tempo nella scrittura creativa, Ariosto ci parla in una satira, la IV (1523). In questa satira la Garfagnana viene descritta come un luogo ostile, impraticabile, abitato da un gregge irrequieto; vediamo qualche verso:
Questa è una fossa, ove abito, profonda,
donde non muovo piè senza salire
del silvoso Apennin la fiera sponda.
O stiami in Ròcca o voglio all’aria uscire, 145
accuse e liti sempre e gridi ascolto,
furti, omicidii, odi, vendette et ire;
sì che or con chiaro or con turbato volto
convien che alcuno prieghi, alcun minacci,
altri condanni, altri ne mandi assolto; 150
ch’ogni dì scriva et empia fogli e spacci
al Duca or per consiglio or per aiuto,
sì che i ladron, ch’ho d’ogni intorno, scacci.
La Garfagnana era una regione di frontiera, sita in una posizione impervia, e caratterizzata da frequenti conflitti tra fazioni (ad esempio, tra quella filo fiorentina e quella filo estense), da un continuo alternarsi di giurisdizioni diverse (dagli Este, al Papa, a Firenze) e da un banditismo endemico. Le parole di Ariosto dimostrano come dovesse essere complesso governare una regione selvaggia per un “amministratore” del tempo. Possiamo immaginare che il poeta riuscì a portare a termine il suo incarico grazie alla propria capacità oratoria e diplomatica, e grazie all’arte scrittoria: la scrittura era infatti il mezzo che gli consentiva di tenersi in contatto con le autorità centrali e di chiedere eventualmente il loro aiuto.
Tabula Peutingeriana: Pars IV – Segmentum IV; Rappresentazione delle zone Apuane con indicate le colonie di Pisa Lucca Luni, il nome Sengauni e, poco sotto, il Foro Clodi posto a XVI miglia romane da Luni; il tratto Pisa Luni non è ancora collegato – CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2453133
Finalmente, dopo essersi distinto per il suo buon governo, ad Ariosto fu consentito, nel 1525, di ritornare a Ferrara, dove visse in un relativo benessere economico presso la contrada Mirasole. Poiché si era conquistato stima e rispetto come amministratore e come letterato, la corte estense, da allora in avanti, richiese ad Ariosto solo incarichi di rappresentanza e l’accompagnamento del duca in alcuni viaggi. Fu questa una fase di produzione letteraria ampia ed abbondante.
Abbiamo visto un esempio della vita di un letterato cortigiano: Ariosto visse sempre un conflitto tra le esigenze di quella tranquillità necessaria a coltivare la sua vena creativa, e le condizioni materiali ed economiche della vita di corte. Solo col tempo riuscì ad acquistare una certa autonomia. La biografia del poeta si intreccia con eventi storici di assoluto rilievo.
La corte e l’artista.
Il legame di Ariosto con la corte non fu, pertanto, un caso isolato. L’artista e il letterato in epoca rinascimentale si ponevano spesso sotto l’ègida di un protettore, per ricavarne sostegno economico, e d’altro canto anche il signore aveva bisogno dell’artista, per varie ragioni. In primo luogo per comunicare all’esterno il proprio status sociale, la propria ricchezza, per dare insomma segni tangibili del proprio potere. La bellezza delle opere d’arte che il signore commissionava accresceva la magnificenza e lo splendore del palazzo, e gli elogia poetici esaltavano la grandezza della casata, eternandola.
Ma cosa è la corte? Essa è il luogo in cui risiede un principe o un re. Tuttavia il senso è anche figurato, in quanto la corte è anche la familia del sovrano, ovvero l’insieme dei funzionari, dei gentiluomini, dei servi, dei consiglieri politici al suo servizio. Il numero dei cortigiani poteva essere anche molto consistente: ad esempio ben 2000 persone risiedevano presso la corte pontificia di papa Leone X.
La corte poteva essere anche itinerante, perché il sovrano poteva aver bisogno di essere visto dai suoi sudditi e di conoscere il suo regno. Gli uomini che abitavano il palazzo del principe svolgevano molti ruoli: cuochi, siniscalchi, coppieri, sguatteri, giardinieri ecc. Al primo posto nella scala gerarchica erano gli aristocratici, e tra questi e i servitori esisteva un gruppo intermedio composto da amministratori, giudici e politici. Gli accompagnatori prediletti del principe erano i cosiddetti “favoriti”, che risiedevano nelle stanze private del sovrano ed avevano con lui un rapporto diretto, più informale rispetto alla norma delle relazioni instaurate a corte, caratterizzate da rituali cristallizzati. Con il tempo alcune corti si ampliarono a spese di altre, fatto, questo, sintomatico della progressiva centralizzazione del potere.
L’importanza della figura dell’uomo di corte emerge vivissima nel saggio sugli usi e costumi del perfetto cortigiano, Il cortegiano, di Baldassarre Castiglione (1528): per Castiglione, è necessario in primo luogo piacere al principe, distinguendosi nell’arte della conversazione. La partecipazione alla vita di corte comporta la necessità di seguire le regole di un comportamento educato e corretto: cortesia è la parola che indica i comportamenti che contraddistinguono le azioni di un aristocratico, e proprio in epoca rinascimentale vedono la luce molti manuali di buone maniere, il più noto tra i quali è certamente il Galateo di Giovanni della Casa (1558).
A corte furono anche molti artisti, che cercavano di ottenervi una posizione di rilievo; si trattava di musicisti, pittori, letterati ecc. Pittori e scultori potevano scegliere in realtà di lavorare nelle loro botteghe su commissione di clienti: questa condizione consentiva loro una maggiore libertà, anche di evitare incarichi non graditi, ma determinava una situazione economica più precaria. Viceversa, scegliendo la vita di corte, un artista poteva valersi di maggiori sicurezze economiche e di una posizione socialmente più elevata: questo comportava meno libertà, e più pretese da accontentare. Gli artisti infatti non svolgevano a corte solo quello che rientrava nelle loro specifiche competenze, ma si adattavano a soddisfare le esigenze del principe; ad esempio, a un pittore poteva essere richiesto anche di decorare appartamenti o progettare costumi. La situazione di un letterato non era dissimile: molti non avevano mezzi di sostentamento, e necessitavano di un mecenate che glieli fornisse; in cambio, il poeta doveva tessere le lodi del signore, esaltandolo attraverso poemi epici o mediante liriche di carattere encomiastico. Ad esempio Filelfo scrisse la Sforziade, poema epico dedicato a Francesco Sforza, ma anche Ariosto, come si è visto, disseminava nell’Orlando Furioso riferimenti agli Este, sotto il cui governo dichiarava che sarebbe tornata l’età dell’oro. Anche gli storici erano molto graditi a corte, in quanto conferivano fama ai propri mecenati attraverso le loro opere.
I poeti potevano dover impiegare il loro tempo in occupazioni di tipo pratico, ad esempio talvolta erano incaricati di organizzare feste, di accompagnare il signore in occasione di viaggi, e soprattutto, come abbiamo visto, svolgevano funzione di segretari o diplomatici. Spesso i letterati cortigiani aspiravano anche ad ottenere benefici ecclesiastici, in quanto fonti di reddito più sicure: infatti non sempre il mecenate appariva generoso, come si è visto nel caso di Ariosto, e non era infrequente che alcuni si lamentassero dell’esiguità delle ricompense. Oltre all’Ariosto, altri scrittori si fecero portavoce della critica alla corte, dipinta come luogo di inganni, orgoglio, invidia. Il Piccolòmini scrisse un trattatello sotto forma di carteggio, Le miserie dei cortigiani (1444), in cui racconta proprio dei problemi della vita di corte, lamentando l’ingiustizia dei premi dati a persone di scarso valore, l’instabilità della condizione dell’uomo valente, la perdita dell’autonomia, la mancanza di riservatezza, e i problemi relativi al mangiare, al dormire, alla scarsa igiene.
D’altro canto i letterati non potevano fare a meno di ambire ad un posto a corte, per necessità economiche, per poter dedicare il proprio tempo agli otia letterari, e per ottenere prestigio e fama. Anche quando nacque il mercato letterario attraverso la stampa, la figura del mecenate non decadde del tutto: non era infrequente che gli autori dedicassero un’opera ad un signore per averne un tornaconto economico, e anche gli stampatori potevano necessitare del sostegno di un ricco mecenate.
Per approfondire il tema, si propone la lettura di saggi rilevanti, tra cui: Mecenati e clienti, in Peter Burke, Cultura e società nell’Italia del Rinascimento, Einaudi, 1984, Il cortigiano, in L’uomo del Rinascimento, a cura di Eugenio Garin, Laterza 1988 e L’umanesimo e la corte, in Antonio Piromalli, La cultura a Ferrara al tempo di Ludovico Ariosto, Bulzoni, 1975.
Il madrigale è un componimento lirico breve, legato alla musica. Inizialmente più lungo e complesso, viene ridotto nel corso del Cinquecento a una sola stanza di endecasillabi o settenari; la rima può essere libera o assente, ma comunque il componimento si conclude con una rima baciata.
I madrigali potevano riguardare temi morali o religiosi, ma soprattutto erano dedicati al racconto dell’amore, in tono leggero e galante. È questo il caso del madrigale di Tasso Tacciono i boschi e i fiumi, composto nel 1592, su commissione del musicista Gesualdo da Venosa:
Tacciono i boschi e i fiumi,
e’l mar senza onda giace,
ne le spelonche i venti han tregua e pace,
e ne la notte bruna
alto silenzio fa la bianca luna;
e noi tegnamo ascose
le dolcezze amorose.
Amor non parli o spiri,
sien muti i baci e muti i miei sospiri.
Metro: madrigale con schema abBcCddeE
Parafrasi
I boschi e i fiumi sono silenziosi,
il mare è calmo e senza onde,
i venti non spirano nelle grotte,
e durante la notte oscura
la luna, bianca, sta in un profondo silenzio;
e noi teniamo nascoste
le dolcezze dell’amore.
Amore non parli o emetta fiato,
i baci e i miei sospiri siano muti.
Il madrigale Tacciono i boschi e i fiumi prende ispirazione sia dalla prima quartina del sonetto 164 di Petrarca (Or che ‘l ciel e la terra e ‘l vento tace), sia dalla celeberrima immagine virgiliana degli amica silentia lunae (Eneide, II, 255).
L’atmosfera ricreata è serena, gli elementi della natura appaiono in una fase di quiete: boschi e fiumi sono silenti, il mare è calmo, i venti non spirano. La luna è bianca, in contrapposizione al nero della notte, e produce un alto silenzio: l’aggettivo allude sia alla profondità del silenzio, latinamente inteso, sia all’altezza della luna nel cielo. L’immagine è una sinestesia, in quanto associa due sfere sensoriali diverse, la vista e l’udito.
I primi cinque versi rimandano ad elementi inanimati, mentre dal sesto compare l’uomo, che si trova in una dimensione empatica rispetto alla natura. L’amore dovrà implicare in ogni caso silenzio, quel silenzio che la notte crea e sembra richiedere anche agli amanti: in questo risiede la piena sintonia e consonanza tra gli amanti e gli elementi della natura. La dolce realizzazione dell’amore si esplica preferibilmente proprio durante la notte, il momento ideale per nascondere e rendere segreta l’intimità degli amanti.
Il Guercino, Paesaggio al chiaro di luna, 1616, Nationalmuseum Stockolm
La ripresa del sonetto 164 di Petrarca, che ispira il madrigale per l’ambientazione silente e notturna (si veda soprattutto il v. 4 et nel suo letto il mar senz’onda giace), ha carattere formale, ma non sostanziale. Infatti in Tasso l’ultimo verso rende esplicito il dato sensuale, evocato dai baci e dai sospiri, dato che non si sarebbe mai potuto rintracciare in Petrarca, per il quale l’amore è una sorta di adynaton, e si colloca su un piano ideale. Infatti il sonetto trecentesco si conclude con l’affermazione del continuo rinnovamento del martirio d’amore.
Il madrigale esprime invece la gioia di un amore goduto, benché si richieda a questo godimento una totale assenza di suono: in questo senso l’immagine finale è quasi ossimorica, perché baci e sospiri dovrebbero essere muti, mentre invece producono un suono, seppur delicato e leggero.
Francesco Petrarca, O cameretta che già fosti un porto
Canzoniere 234
O cameretta che già fosti un porto
a le gravi tempeste mie diürne,
fonte se’ or di lagrime nocturne,
che ’l dí celate per vergogna porto.
O letticciuol che requie eri et conforto
in tanti affanni, di che dogliose urne
ti bagna Amor, con quelle mani eburne,
solo ver ’me crudeli a sí gran torto!
Né pur il mio secreto e ’l mio riposo
fuggo, ma piú me stesso e ’l mio pensero,
che, seguendol, talor levommi a volo;
e ’l vulgo a me nemico et odïoso
(chi ’l pensò mai?) per mio refugio chero:
tal paura ò di ritrovarmi solo.
Inserito nella prima parte delle rime, il sonetto di Petrarca sulla cameretta tratta un tema in realtà tradizionale, che si rintraccia anche nelle Sacre Scritture. Già Dante nella Vita Nova parlava della camera come rifugio e come luogo adatto al pianto segreto, e in seguito Boccaccio riprende e moltiplica questo motivo nel Filocolo e nel Filostrato.
Nella prima quartina leggiamo che la cameretta è metaforicamente paragonata ad un porto sicuro, che durante le tempeste della giornata (fuor di metafora: i gravi problemi che fanno soffrire il poeta), ha offerto un sicuro riparo; adesso invece la camera è il luogo dove il poeta può piangere di notte le lacrime che nasconde di giorno.
Il caro letto, prima un conforto nella sofferenza, adesso invece è bagnato dalle lacrime di Amore, causate dalle mani di Laura, bianche come l’avorio. Queste mani sono crudeli solo verso il poeta.
Il poeta, come ci dice nella prima terzina, non solo fugge l’intimità della cameretta e il riposo che il letto potrebbe dare, ma anche se stesso e il suo pensiero d’amore, che lo fa sollevare al di sopra delle cose terrene. Nella seconda terzina il poeta dichiara di ricercare come nuovo rifugio la compagnia del “vulgo” nemico e odiato, tale è la sua paura di ritrovarsi da solo con i suoi pensieri.
Se inizialmente dunque la cameretta, il “dentro”, rappresenta la calma e la quiete contrapposte al mondo esterno in tempesta, il poeta ci svela poi un vero e proprio ribaltamento: è il fuori a rappresentare la via d’uscita, perché l’interno acuisce il dolore favorendo il pensiero d’amore per Laura, un amore tormentato e inappagato. Questo tormento sfocia in un doloroso pianto.
A. M. Marini (1668-1725), Mare in burrasca, olio su tela.
Ludovico Ariosto lavora sul modello petrarchesco, ma molto diverso è l’intento della poesia, e anche il tono:
Ludovico Ariosto, O sicuro, secreto e fidel porto
III
O sicuro, secreto e fidel porto,
dove, fuor di gran pelago, due stelle,
le più chiare del cielo e le più belle,
dopo una lunga e cieca via m’han scorto;
ora io perdono al vento e al mar il torto
che m’hanno con gravissime procelle
fatto sin qui, poi che se non per quelle
io non potea fruir tanto conforto.
O caro albergo, o cameretta cara,
ch’in queste dolci tenebre mi servi
a goder d’ogni sol notte più chiara,
scorda ora i torti e i sdegni acri e protervi:
ché, tal mercé, cor mio, ti si prepara,
che appagarà quantunque servi e servi.
In O sicuro, secreto e fidel porto compare la notte, che presenta una valenza positiva; nella notte infatti ci sono anche delle luci, gli occhi della donna, che hanno condotto il poeta nella tranquillità della cameretta.
Anche in Petrarca l’ambientazione è notturna, tuttavia non vi è nulla di sereno nel sonetto: come abbiamo visto, la cameretta un tempo era un porto, adesso è un luogo di pianti e disperazione, dovuti ad amore; il poeta giunge al punto di ricercare la compagnia del volgo per evitare di stare solo con il suo dolore. Viceversa per Ariosto la cameretta è il luogo in cui l’amore si realizza felicemente, dove le due stelle, ovvero gli occhi della donna, lo portano al riparo dalle tempeste della vita. Allora, in questo porto felice, la notte sarà più dolce e chiara del sole. Tutto sarà perdonabile, ogni torto subito, ogni offesa, proprio grazie al conforto dato dall’amata nella quiete della cameretta.
Vincent van Gogh, Notte stellata, 1889, olio su tela, cm 73,7 x 92. New York, Museum of Modern Art (MoMa)
Del testo di Ariosto si suggerisce anche di notare alcune figure retoriche ed espedienti poetici:
• L’iterato procedimento vocativo, che riprende Petrarca ed era presente anche nel capitolo;
• In linea con i vocativi, nelle terzine sono presenti due forme verbali alla seconda persona singolare, “servi”, rivolto alla cameretta e “ti si prepara”, riferito al cuore;
• La doppia dittologia del v. 12: “torti e i sdegni” (sostantivi) e “acri e protervi” (aggettivi);
• La ripetizione finale del verbo “servi” e la rima equivoca con il “servi” del v. 10, che deriva dal verbo servare.
Mentre Petrarca soffre per Laura, ed esprime in vario modo questo dolore, nel caso di Ariosto, che viveva una relazione felice con Alessandra Benucci, l’amore è vissuto in modo sereno e positivo e la cameretta rappresenta lo specchio nitido di questa visione.