Flumen est Arar, quod per fines Haeduorum et Sequanorum in Rhodanum influit, incredibili lenitate. Id Helvetii ratibus ac lintribus iunctis superabant. Ubi per exploratores Caesar cognovit tres iam partes copiarum Helvetios id flumen traduxisse, quartam vero partem citra flumen Ararim relictam esse, de tertia vigilia, legionibus tribus e castris eductis, ad eam partem pervenit, quae nondum flumen superavĕrat. In eos impeditos et inopinantes impetu facto, magnam partem concidit; relĭqui sese fugae mandaverunt atque in proximas silvas abdidērunt. Is pagus appellabatur Tigurīnus; nam omnis civĭtas Helvetia in pagos divisa est. Hic pagus unus, patrum nostrorum memoriā, L. Cassium consulem interfecĕrat et eius exercitum sub iugum misĕrat. Ita sive casu sive consilio deorum immortalium quae pars civitatis Helvetiae insigni calamitate populo Romano adfecĕrat, ea princeps poenam persolvit.
Traduzione
L’Arar è un fiume che sfocia nel Rodano attraverso i territori degli Edui e dei Sequani con incredibile lentezza. Gli Elvezi lo attraversavano con barche e zattere unite. Quando Cesare grazie agli esploratori venne a sapere che ormai tre parti delle truppe degli Elvezi avevano oltrepassato quel fiume e che in verità la quarta parte era stata lasciata al di qua del fiume Arari, poco dopo la mezzanotte, dopo aver condotto fuori dall’accampamento tre legioni, giunse da quella parte che non aveva ancora superato il fiume. Compiuto l’assalto contro quelli, che erano ostacolati e sorpresi, ne trucidò la gran parte; gli altri si diedero alla fuga e si nascosero nei boschi più vicini. Quel villaggio era chiamato Tigurino; infatti tutta la cittadinanza degli Elvezi è divisa in villaggi. Questo unico villaggio, come ricordano i nostri padri, aveva ucciso il console Lucio Cassio e aveva mandato sotto il giogo il suo esercito. Pertanto o per caso o per volere degli dei immortali, la parte della cittadinanza degli Elvezi che aveva colpito il popolo romano con una grave perdita, quella per prima scontò la pena.
Cesare riceve l’ambasceria di Divicone sul fiume Arar, dopo la vittoria romana sugli Elvezi. Di Karl Jauslin – Andres Furger-Gunti: Die Helvetier: Kulturgeschichte eines Keltenvolkes. Neue Zürcher Zeitung, Zürich 1984, S. 111., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1579085
Osserviamo sulla carta precedente le seguenti parole:
BRITANNIA, GALLIA CISALPINA, BELGICA, CELTICA, NARBONENSIS, GERMANIA, AQUITANIA
LA CAMPAGNA DI CESARE IN GALLIA
Nel 60 a.C Cesare strinse un accordo con Pompeo e Crasso, detto primo triumvirato.
Dal 59 a.C Cesare ricoprì il consolato e per i 5 anni successivi ottenne il governo della Gallia, dove avrebbe potuto distinguersi militarmente grazie alla conquista di nuovi territori.
Nel 58 le province romane erano solo due, la Gallia Narbonese (o Gallia Togata, dal nome della toga romana, corrispondente all’attuale Provenza) e la Gallia Cisalpina o Citeriore (Italia del nord). La parte non romana era la cosiddetta Gallia Comata.
Tra il 58 e il 57 a.C, Cesare sottomise i Galli e buona parte del loro territorio; nel 52 a.C assoggettò completamente la Gallia. Successivamente dalla Gallia Comata, Augusto creò tre nuove province, la Gallia Lugdunensis, la Gallia Belgica e l’Aquitania.
Principali battaglie:
58 a.C guerra contro gli Elvezi
58 a.C guerra contro Ariovisto e i Germani
57 a.C guerra contro i Belgi
56 a.C guerra contro i Galli veneti e aquitani
55-4 a.C guerra contro Britanni e Germani
Guerra contro il capo degli Arverni Vercingetorìge e presa di Alesia
Cesare racconta le sue imprese in un’opera dettaCommentarii de bello gallico , divisa in sette libri. Per rendere il racconto più oggettivo e attendibile usa la terza persona.
Nell’incipit della sua opera,Cesare descrive il territorio gallico.
ECCO LA GALLIA! (Cesare, De bello gallico, Libro I)
Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi (=i più impavidi) sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt, minimeque ad eos mercatores saepecommeant atque ea quae ad effeminandos animos pertinent important, proximique sunt Germanis, qui trans Rhenum incolunt, quibuscum continenter bellum gerunt. Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos virtute praecedunt, quod fere cotidianis proeliis cum Germanis contendunt, cum aut suis finibus eos prohibent aut ipsi in eorum finibus bellum gerunt. Eorum una pars, quam Gallos obtinere dictum est, initium capit a flumine Rhodano, continetur Garumna flumine, Oceano, finibus Belgarum, attingit etiam ab Sequanis et Helvetiis flumen Rhenum, vergit ad septentriones. Belgae ab extremis Galliae finibus oriuntur, pertinent ad inferiorem partem fluminis Rheni, spectant in septentrionem et orientem solem. Aquitania a Garumna flumine ad Pyrenaeos montes et eam partem Oceani quae est ad Hispaniam pertinet; spectat inter occasum solis et septentriones.
Traduzione
La Gallia intera è divisa in tre parti, delle quali una è abitata dai Belgi, un’altra dagli Aquitani, la terza da quelli che si chiamano Celti nella loro lingua, Galli nella nostra. Tutti questi sono diversi tra loro per lingua, istituzioni e leggi. Il fiume Garonna divide i Galli dagli Aquitani, la Marna e la Senna li separano dai Belgi. I più impavidi sono i Belgi, perché sono lontanissimi dal modo di vivere e dalla civiltà della provincia e i mercanti molto raramente si recano presso di loro e introducono quelle cose che mirano a rammollire gli animi e sono vicinissimi ai Germani, che abitano oltre il Reno, contro i quali combattono ininterrottamente. Per questo motivo gli Elvezi superano in valore anche gli altri Galli, poiché combattono battaglie quasi quotidiane contro i Germani, quando o li interdicono dai propri territori o loro stessi portano guerra nei loro. Una parte di quelli, che è stato detto appartiene ai Galli, inizia dal fiume Rodano, è cinta dal fiume Garonna, dall’Oceano, dai territori dei Belgi, tocca anche il fiume Reno dalla parte dei Sequani e degli Elvezi, è rivolta verso nord. La regione dei Belgi inizia dagli estremi territori, confina con la parte inferiore del fiume Reno, si estende al nord e verso il sole che sorge. L’Aquitania si estende dal fiume Garonna ai monti Pirenei e a quella parte dell’Oceano che volge alla Spagna; va da occidente a settentrione.
Continetur: dal verbo della seconda coniugazione contĭnĕo , contĭnes, continui, contentum, contĭnēre, probabilmente composto di cum+teneo. Significato: “Tenere unito”, “tenere insieme”, “racchiudere”, “circondare”, “cingere”. Dal participio di questo verbo proviene l’ italiano “continente”:
continènte1 (ant. contenènte) agg. [dal lat. contĭnens -entis, part. pres. di continere «contenere», e, nel sign. 1, di contineri «contenersi»]. – 1. Che si contiene, si modera nella soddisfazione dei bisogni materiali e dei piaceri: è molto c. nel mangiare, nel bere, ecc.
continènte2 s. m. [dal lat. contĭnens–entis (terra), part. pres. Di continere «contenere, congiungere», propr. «terra continua, non interrotta dal mare»]; 1. Ciascuno dei quattro vasti complessi di terre emerse, isolate da oceani. [Treccani]
Attingit: dal verbo della terza coniugazione attingo, attingis, attigi, attactum, attingĕre. Significato: “toccare”, in senso figurato “raggiungere”, “confinare”.
Da questo verbo deriva l’italiano “attingere”:
attìngere (ant. e pop. tosc. attìgnere) v. tr. [lat. attĭngĕre, comp. Di ad– e tangĕre «toccare»] 1.letter. Toccare, raggiungere: come di Troia Attinsero le rive (V. Monti). Fig., ottenere, conseguire: a. la fama, la gloria; arrivare a comprendere: l’intelletto può a. le relazioni, e non la sostanza delle cose (F. De Sanctis). Con il sign. di raggiungere, arrivare a, si ha talora anche un uso intr.: a. alla fama; a. alla verità. 2. Levare, tirar su acqua da un pozzo, da una fonte e sim., con un secchio o altro recipiente: a. acqua dalla cisterna; era andato al ruscello ad a.acqua. Fig., ricavare, trarre: a. notizie dai giornali; a. esempî da testi antichi; a. nuove espressioni dalla fresca parlata del popolo; a. forza dalle parole di un amico. [Treccani]
Vergit: dal verbo della terza coniugazione transitivo e intransitivo vergo, vergis, vergere. Significato: intransitivo; in senso geografico, “essere rivolto o guardare verso”, “inclinarsi, digradare, declinare, estendersi, abbassarsi”; (intransitivo; del tempo) “essere o avvicinarsi alla fine”, (intransitivo; in senso figurato) “avvicinarsi, tendere, volgersi, essere propenso a, dirigersi”; (transitivo; passivo) “volgersi, dirigersi verso, inclinare”.
Da questo verbo deriva l’italiano convergere:
convèrgere v. intr. e tr. [dal lat. Tardo convergĕre, comp. Di con– e vergĕre «volgersi»–1.intr.a.Tendere, muovendo da punti diversi, verso un unico punto o limite: linee, raggi, strade che convergono. In matematica, con riferimento a serie numeriche, successioni e sim., lo stesso che tendere al limite. b. fig. Tendere insieme, esser rivolto a un medesimo fine: i nostri sforzi, le nostre aspirazioni convergono. 2. tr., letter. Volgere, dirigere verso un punto o, fig., verso uno scopo: Conversero la prora al campo argivo (V. Monti); c. gli occhi, la mente, gli sforzi. [Treccani]
Agri culturae non student, et magna pars eorum victus in lacte, caseo, carne consistit. Non habent agri modum certum aut fines proprios, sed principes in annos singulos gentibus cognationibusque hominum agrum adtribuunt numero aptum et, anno post alio, mutare sedem cogunt. Eius rei multae indicantur causae: ne, adsidua consuetudine capti, studium belli agri culturā commutent; ne latos fines parare studeant neve principes ex possessionibus humiles expellant; ne, contra frigora atque aestus, firmas casas aedificent; ne augeatur pecuniae cupiditas et eā causā factiones dissensionesque in civitate erumpant; ut animi aequitate principes contineant plebem, videntem opes suas cum illis aequari. Civitatibus summa laus est habere circum se solitudines: hoc proprium virtutis existimant, non concedĕre aliis ut apud se consistant.
TRADUZIONE
Non si occupano dell’agricoltura, e la gran parte del loro cibo è composto da latte, formaggio e carne. Non hanno una misura fissa di campi o territori propri, ma i nobili ogni anno assegnano alle famiglie e ai parenti di uomini un terreno adatto al numero e, anno dopo anno, costringono a cambiare sede. Sono indicate molte cause di questo fatto: affinché, presi da costante abitudine, non cambino con l’agricoltura l’impegno della guerra; affinché non si impegnino per ottenere territori ampi o i principi non estromettano gli umili dai possedimenti; affinché non costruiscano edifici stabili, contro il freddo e il caldo; affinché non aumenti il desiderio di denaro e per questo motivo esplodano fazioni e discordie in città; affinché i nobili contengano con l’equità d’animo la plebe, che vede pareggiare le proprie ricchezze con le loro. E’ motivo di molta lode per i cittadini avere intorno a sé solitudine: reputano questo proprio del valore, non concedere agli altri di fermarsi presso di loro.
Per come è vista da Cesare, la cultura germanica appare molto differente dalla civiltà romana. Infatti i Germani non praticano l’agricoltura e si nutrono di carni e latte. Non sono sedentari e cambiano sede continuamente, affinché non si rammolliscano e non si leghino troppo alla terra. Infatti edifici stabili abituano a una certa comodità, mentre i Germani devono mantenere una tempra durissima per fronteggiare guerre e asperità del clima.
Inoltre la proprietà privata è rischiosa anche perché potrebbe incentivare alcuni a volerne conquistare sempre di più e i principi a spodestare i più umili. La terra dunque può essere motivo di conflitto, che i capi vogliono evitare.
La solitudine è un valore, sono reputati infatti migliori coloro che hanno la capacità di non far avvicinare nessuno.
Il testo è attraversato da numerose proposizioni finali, affermative e negative, con il verbo al congiuntivo presente.
Cesare tenta una spedizione in Britannia, ma le sue navi, ancorate alla costa, sono sorprese dall’alta marea.
Eadem nocte luna plena erat, quaemaritimos aestus magnos in Oceano efficĕre consuevit, nostrisque id erat incognitum. Ita uno tempore et longas naves, quas Caesar in aridum subduxerat, aestus complebat, et onerarias, quae ad ancoras erant deligatae, tempestas adflictabat, neque Romani ullo modo aut naves administrare aut laborantibus auxilium ferre valebant. Multis navibus fractis, quia reliquae, funibus, ancoris reliquisque armamentis amissis, ad navigationem inutiles erant, totus exercitus magna perturbatione captus est. Neque autem exercitum in Galliam reducere debebat quod frumentum in his locis in hiemem provisum non erat.
Nella stessa notte la luna era piena, la quale era solita creare alte maree sull’Oceano, e questo fatto era sconosciuto ai nostri. Così allo stesso tempo sia la marea riempiva le navi lunghe che Cesare aveva tratto sulla terra, sia la tempesta percuoteva le navi da carico che erano state legate alle ancore, né i Romani in alcun modo riuscivano a governare le navi o a portare aiuto a quelle in difficoltà. Dopo la distruzione di molte navi, poiché le altre, essendo state perse funi, ancore e altri armamenti, erano inutili alla navigazione, l’intero esercito fu colto da grande turbamento. Né infatti c’erano altre navi per i soldati e molti strumenti, che erano per uso delle imbarcazioni, erano stati distrutti. Tuttavia Cesare doveva riportare l’esercito in Gallia poiché in questi luoghi in inverno non era stato procurato il frumento.
Era la notte e gli stanchi corpi godevano di un tranquillo riposo
sulla terra e le selve e le acque furiose erano in quiete;
quando le stelle si voltano indietro a metà del loro corso,
quando tace ogni campo, le greggi, e variopinti gli uccelli
che hanno le ampie distese delle acque o le campagne irte
di spini, raccolti nel sonno, sotto la notte silente.
[Lenivano gli affanni e il cuore dimentico delle fatiche]
Ma non la Fenicia, infelice nell’animo: lei mai
si abbandona al sonno o accoglie la notte negli occhi
o nel petto. Raddoppiano gli affanni e risorgendo di nuovo
infuria l’amore e ribolle in grandi tempeste di ire.
L’incipit del passo preso in esame evidenzia con chiarezza il tempo della narrazione epica: i primi sei versi rappresentano un quadro descrittivo molto ampio, all’interno del quale il focus ricade in primo luogo sui fessa corpora, per cui il primo elemento menzionato è costituito da esseri viventi; si nota la particolarità del verbo carpo accostato ad un complemento oggetto astratto come placidum soporem. Il sostantivo e l’aggettivo in accusativo “abbracciano” sia il predicato verbale sia l’aggettivo fessa. La panoramica passa dalle silvae e dalla saeva aequora, elementi terreni, alla visione del cielo dove si muovono le stelle, per poi approdare nuovamente alla terra, in cui tacciono i campi e gli uccelli. Si notino, oltre alle allitterazioni, la frequenza di termini volti a dare l’idea di un’atmosfera silenziosa e immersa nel sonno: soporem, quierant, tacet, somno, nocte, silenti.
Notevole lo stacco semantico prodotto dall’avversativa at; il cambio di passo è implicato non solo dal passaggio alla descrizione di un singolo soggetto in luogo di molti, ma soprattutto dal fatto che il sonno e la quiete non riguardano Didone, sofferente a causa del furor d’amore. La negatività della condizione della donna è come evocata dalla frequenza di avverbi di negazione (non, neque, umquam), dall’allitterazione della liquida vibrante r e dal verbo ingeminant.
Si possono fare alcune osservazioni di carattere lessicale e grammaticale:
Saeva aequora: la radice di aequora rimanda all’idea del giusto, del bilanciato, e il termine stride con l’aggettivo saevus.
Positae: osservare la sfumatura di significato del verbo in relazione al contesto del verso;
Accipio: notare che il verbo, che rimanda ad un’idea di accoglienza, è accompagnato da negazione; infatti le sensazioni di Didone sono ben distanti dalla quiete che caratterizza i primi versi;
Fluctuat: il verbo rimanda all’idea di un’onda.
La tematica del notturno era presente sin da Omero (Iliade VIII, v. 555), dove si legge una similitudine tra le stelle che brillano nel cielo limpido e i fuochi accesi dai troiani accampati davanti ad Ilio; esiste anche un frammento di Alcmane (VII a. C), che potrebbe provenire da un partenio, in cui si descrive la quiete della notte attraverso un elenco di luoghi e animali. Ma il passo più significativo da porre in rapporto con quello virgiliano è forse la notte di Medea nelle Argonautiche (III, v. 744). Qui, durante il momento notturno, arrivano sulla Terra le tenebre e il sonno per i mortali, seguiti dal silenzio tipico dell’oscurità; l’ambientazione è marina e si legge una citazione “tecnica” relativa alle costellazioni dell’ Orsa e di Orione, mentre l’elemento faunistico si limita alla menzione dei cani, che non guaiscono più per la città. L’elemento di maggior differenza con Virgilio è dato dalla presenza di una “madre di morti figli”, figura infelice, eppure anch’essa preda del sonno. La somiglianza maggiore è invece insita nell’avversativa, che segnala il contrasto tra la quiete dei primi versi e la tensione di Medea, còlta da insonnia a causa del conflitto tra il senso dell’onore, la fedeltà al padre e l’amore per Giasone.
Notte di luna piena, di R. Cantone
Orazio, Epodo 15, vv. 1-16.
Gli Epodi, denominati dal poeta Iambi, rappresentano la prima raccolta poetica di Orazio, e furono composti tra il 40 e il 30 a. C, per cui cronologicamente precedono l’Eneide. Questi testi sono caratterizzati da una certa varietà tematica, fondata sul modello del giambo arcaico.
Nox erat et caelo fulgebat Luna sereno
inter minora sidera,
cum tu, magnorum numen laesura deorum,
in verba iurabas mea,
artius atque hedera procera adstringitur ilex 5
lentis adhaerens bracchiis,
dum pecori lupus et nautis infestus Orion
turbaret hibernum mare
intonsosque agitaret Apollinis aura capillos,
fore hunc amorem mutuum, 10
o dolitura mea multum virtute Neaera:
nam si quid in Flacco viri est,
non feret assiduas potiori te dare noctes
et quaeret iratus parem
nec semel offensi cedet constantia formae, 15
si certus intrarit dolor.
Era notte e la luna splendeva nel cielo sereno
in mezzo agli astri di minor splendore,
quando tu, pronta a offendere la maestà degli dei,
giuravi su parole che io stesso ti porgevo,
con braccia flessuose più forte attaccandoti a me
di quanto un’alta quercia non sia stretta dall’edera:
che fin quando infierisse, ostile alle pecore, il lupo
e Orione ai naviganti nel mare invernale,
fin quando la brezza agitasse gl’intonsi capelli di Apollo,
reciproco sarebbe questo amore.
Ti farà molto soffrire la mia fermezza, o Neera!
Perché se in un Flacco c’è alcunché di virile,
non potrà tollerare che tu dia di continuo le tue notti a un rivale
ma irato cercherà un’altra che gli corrisponda,
né – una volta ferito – la tua bellezza piegherà i suoi propositi,
L’incipit dell’epodo, da nox a et, coincide con quello dei versi virgiliani letti. Il testo oraziano è antecedente a quello di Virgilio, ma quello che importa è sottolineare che questa movenza iniziale, attestata in questo epodo per la prima volta e divenuta poi topica, avrà probabilmente avuto un’ origine comune in un modello greco.[2]
In Virgilio il narratore epico sviluppa la fabula attraverso un ampio numero di versi la cui densità concettuale è amplificata dal ritmo disteso dell’esametro. Virgilio indugia nel quadretto descrittivo, che rappresenta una sorta di battuta d’arresto rispetto allo sviluppo degli eventi. Il giambo è poesia che deve esprimere polemica, invettiva, risentimento, e concentrare narrazione e descrizione in un numero relativamente basso di versi. Ecco dunque che la movenza descrittiva in Orazio si interrompe ben presto, per lasciare spazio all’azione, introdotta dalla subordinata temporale e dal tu interlocutorio.
L’immagine iniziale è caratterizzata dall’oscurità, ma il complemento di stato in luogo caelo, col suo aggettivo sereno in iperbato, abbraccia l’immagine di luce espressa dalla coppia verbo-sostantivo fulgebat luna. La luna compare come protagonista del momento notturno, più potente nel suo splendore rispetto ai minora sidera.
Nei successivi versi il poeta racconta di un giuramento d’amore violato ad opera della donna. La notte, dunque, rappresenta lo scenario ideale di questo giuramento, e insieme alla luna e alle stelle assume la funzione di garante delle promesse fatte: il dato è topico, come è confermato dalla tradizione dell’epigramma ellenistico. Si può leggere in traduzione un testo significativo dall’Antologia palatina:
[V, 8] Meleagro
Notte sacra, e tu lucerna, vi abbiamo prese a testimoni
Dei giuramenti che ci siamo scambiati, voi e non altri:
lui ha giurato di amarmi, e io di non lasciarlo
per sempre; avete avuto l’impegno di entrambi.
Ora lui dice che quel giuramento scivola sopra l’acqua,
e tu, lucerna, lo vedi tra le braccia di altri.
Nell’epigramma si legge come i due amanti abbiano chiamato a testimonianza del giuramento amoroso la notte e la lucerna, simbolici anche della solitudine dei convegni amorosi. La promessa d’amore eterno è stata però poi dichiarata di scarso valore e infranta.
Il terzo verso dell’epodo propone un participio, laesura: esso sembra indicare che la donna fosse consapevole che non avrebbe rispettato il giuramento, ledendo il numendeorum. Il richiamo alla maestà degli dèi, accostato ad un verbo che allude ad un’ idea di violazione, provoca un effetto di stridente contrasto: la sacralità del giuramento è annullata dalle reali intenzioni della donna, la quale si macchia di empietà già nell’atto stesso del giurare; del resto, la scarsa affidabilità dei giuramenti d’amore è un motivo antico, che ha molta eco nella poesia epigrammatica di età ellenistica.[3]
Si ritorna ad un verbo di modo finito con iurabas, interposto tra verba e mea; in base al possessivo capiamo che il giuramento non proviene spontaneamente dalla donna, ma è dettato dall’amante. I versi 5-6 segnalano l’aspetto mimico che accompagna l’espressione verbale delle promesse: la donna è paragonata, secondo una metafora tradizionale, all’edera che aderisce ad un’alta quercia, stringendola con forza.
Dal quinto verso al decimo leggiamo il contenuto del giuramento, secondo il quale l’amore sarà mutuus, reciproco, finché le leggi della natura non verranno sovvertite. Si noterà che questa promessa ha il sapore dell’impossibile, è un adynato, e la particolarità ulteriore risiede nella negatività delle immagini connesse all’ordine naturale, negatività contrassegnata dai termini infestus (riferito sia a lupus che a Orion) e turbaret. Solo al verso 11 compare il nome della donna, menzionata attraverso il vocativo Neaera. A lei è riferito un nuovo participio futuro, dolitura: la donna è destinata a dolersi, perché Orazio reagirà con la virtus, la fermezza tipica del vir[4], e non sopporterà che la donna dia le sue notti ad uno che gli è preferito. Si parla dell’ira, il sentimento determinante per la reazione del poeta, e della constantia, la saldezza dei propri intenti, la quale riuscirà a resistere anche alle seduzioni della bellezza. Il proposito di vendetta è dettato da ragioni profonde, poiché il poeta è offensus ed è stato trafitto da un forte dolore.
L’epodo presenta la tematica amorosa, e vediamo che il poeta rievoca il momento passato del giuramento; si osservino i modi e i tempi verbali, al fine di distinguere i vari piani temporali che scandiscono il componimento:
Passato, vv. 1-10;
Futuro, vv. 11-15;
Presente e futuro, vv. 17-24.
Il tempo della felicità in amore è rappresentato dal passato, e il momento in cui si è verificata è appunto la notte. Alcuni temi qui osservati, come la volubilità della donna amata e la sua propensione a dare noctes assiduas potiori, saranno tipici anche della poesia elegiaca.
Notte stellata sul Rodano, Vincent Van Gogh (1888)
[1] Traduzione di Cavarzere, Epodi, Marsilio, 1992.
[2] Quale sia questo modello è controverso, comunque si trovano alcune ipotesi nell’edizione degli Epodi a cura di Cavarzere (cit. p. 213). Secondo quella più accreditata, di Grassmann, si tratta di Ilias parva, fr. 11 Davies.
[3] Oltre a Meleagro, si possono citare almeno Callimaco AP 5,6 e Asclepiade AP 5, 150. Nell’ambito della letteratura latina, si legge un chiaro ricordo del contesto creato da Orazio in Tibullo 1,9 vv. 1-2 (Quid mihi si fueras miseros laesurus amores, Foedera per divos, clam violanda, dabas?), dove lo spergiuro è il giovane Marato, allettato dai doni di un altro uomo.
[4] Si noti la particolarità retorica dell’espressione quid in Flacco viri est, quasi un ossimoro.