LETTERATURA DAL 1600 AL 1800, LETTERATURA ITALIANA

“Alla luna” di Leopardi – comprensione, analisi, commento

O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, ché travagliosa
era mia vita: ed è, né cangia stile,
o mia diletta luna. E pur mi giova
la ricordanza, e il noverar l’etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri!

PARAFRASI

O graziosa luna, ricordo che circa un anno fa venivo su questo colle ad ammirarti, pieno di angoscia: e tu allora stavi sospesa su quel bosco come fai anche ora, che lo illumini tutto. Ma il tuo volto appariva nebbioso e tremante a causa del pianto che nasceva sul mio volto, perché la mia vita era addolorata. E lo è ancora e non cambia, o mia adorata luna. Eppure mi piace il ricordo, e il calcolare la durata del mio dolore. Oh come si presenta gradito in gioventù, quando la speranza ha un lungo percorso davanti a sé e la memoria invece è breve, il ricordare le cose passate, anche se sono tristi e anche se il tormento ancora dura.

COMPRENSIONE E ANALISI

Nei primi cinque versi il poeta ricorda una abitudine dell’anno precedente, quando andava ad ammirare la luminosa luna che anche allora rischiarava le selve sottostanti; successivamente, fino al verso 10, il poeta descrive il pianto che offusca l’immagine del satellite lunare, pianto dovuto all’infelicità che contraddistingue l’io lirico. Nonostante questo dolore il poeta predilige il recupero memoriale perché, come spiega nell’ultimo periodo, quando si è giovani il ricordo è comunque gradito, anche se riguarda eventi tristi, perché un giovane ha di fronte a sé il lungo percorso della speranza.
Il poeta si riferisce alla luna quasi come se fosse una persona, attraverso l’apostrofe iniziale “o graziosa luna”. Successivamente, sino almeno al verso 10, la luna viene sempre chiamata in causa o attraverso gesti che il poeta compie in relazione ad essa o attraverso l’atto dell’illuminare, ascritto al satellite stesso. La personificazione è evidente anche osservando i verbi e i sostantivi usati in relazione alla luna: “pendevi”, “fai”, “rischiari”, “volto”. L’apostrofe alla luna si ripete in anastrofe al verso 10 (“o mia diletta luna”). La luna-persona rappresenta così una sorta di compagna per il poeta, una confidente silenziosa ma sempre attenta e presente.

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All’interno del componimento possiamo rintracciare campi semantici diversi e opposti: del dolore e del piacere, quest’ultimo connesso all’idea della visione e del ricordo. Al secondo afferiscono termini come “graziosa”, “rammento”, “rimirarti”, “rischiari”, “apparia”, “diletta”, “giova”, “ricordanza”, “noverar”, “rimembrar”. Notiamo che questo campo semantico di felicità, visione e ricordo, è composto per lo più da forme verbali legate alla memoria, con una fortissima allitterazione della liquida “r”. Gli unici due aggettivi, “graziosa” e “diletta”, sono relativi ovviamente alla luna. Per la sfera del dolore e dell’affanno citiamo termini come “angoscia”, “nebuloso”, “tremulo”, “pianto”, “travagliosa”, “dolore”, “triste”, “affanno”. In questa area semantica osserviamo invece la prevalenza di aggettivi e di sostantivi.
Il componimento è in realtà piuttosto bilanciato sul piano lessicale, oscillando tra piacere e dolore, sebbene si possa forse pensare che la forza del sentimento angoscioso arrivi un po’ ad oscurare il piacere della visione e della memoria.

COMMENTO

Il canto si intitola “Alla luna”, pertanto siamo già proiettati in base al titolo in una dimensione interlocutoria, in una ricerca di un altro a cui confidare sé stessi. L’io lirico intraprende quindi questo dialogo che in verità è un monologo con l’elemento lunare. L’aspetto paesaggistico appare funzionale a tale colloquio e all’espressione dei propri ricordi e del senso di tristezza determinato da quelli. Il panorama coincide sempre con il famoso colle, il monte Tabor, dal quale si vede la selva illuminata dalla luna. Non a caso il medesimo colle, in quanto parte della vita quotidiana del poeta, è anche al centro dell’”Infinito”. In quest’ultimo componimento tuttavia la descrizione insiste di più sull’aspetto paesaggistico e sugli elementi che lo compongono, mentre in “Alla luna” si accenna soltanto alla presenza di un ambiente esterno, cornice degli affannosi pensieri del poeta. Certo anche nell’”Infinito” la caratterizzazione visiva e uditiva del panorama non è fine a sé stessa, ma è rivolta sempre ad un’indagine metafisica, a una riflessione che va oltre la contingenza del momento.
Facendo un confronto con “A Silvia”, vediamo che lì il poeta ricrea un’ ambientazione a lui familiare, sempre utile a contestualizzare la vicenda narrata, ad approfondire riflessioni e a comunicare stati d’animo.
Non troviamo mai una descrizione dettagliata e tecnica del paesaggio, proprio in quanto Leopardi ambisce a quella vaghezza che per lui è essenza dello stile poetico.
In “Alla luna” probabilmente fino al verso 9 si ha il ricordo della visione passata e una maggiore presenza dell’intorno e del paesaggio, seppur vaghi e indefiniti, mentre nei versi successivi l’aspetto più astratto e memoriale prende il sopravvento. Possiamo dunque dire che vi sia una cesura netta proprio a partire dal decimo verso.

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Per quanto riguarda la scelta dell’interlocutore poetico, Leopardi sceglie spesso elementi della natura, sia la “greggia”, sia il “passero solitario”, sia “la luna”. Si rivolge inoltre a Silvia, che è un destinatario umano e tuttavia irraggiungibile in quanto ormai defunta. Il poeta predilige dunque interlocutori che altro non sono se non aspetti di se stesso, della sua meditazione, della sua osservazione. Si tratta di elementi che accompagnano la solitudine del poeta senza però sottrargliela veramente, dunque il dialogo è in sé sempre un monologo, un parlare con se stessi.

Interessante è inoltre il riferimento alla speranza giovanile, tema affrontato anche in “A Silvia”: il percorso dell’esistenza è duro e produce affanno e dolore, tuttavia il ricordo di questi dolori è dolce per chi ha la speranza giovanile di un lungo futuro e la memoria del passato ancora breve. In “A Silvia” vediamo bene però che le speranze della ragazza, che tanto accorano il poeta, sono state facilmente disilluse dalla vita e dalla natura.
In “Alla luna” il riferimento alle speranze è più generico e rimane in sé elemento positivo, volto a bilanciare la durezza del passato e l’affanno della vita.

Raramente al giorno d’oggi un giovane attribuisce un risvolto negativo alla speranza, l’accezione con cui il termine è usato solitamente è positiva. Certo non sempre le speranze ottengono un pieno soddisfacimento e talvolta in questo caso si parla di illusioni, in quanto speranze di difficile realizzazione. La lezione leopardiana consiste forse nel darci un affresco realistico, a tratti volto al pessimismo, della dimensione umana. Per quanto riguarda la speranza abbiamo in Leopardi da un lato l’esaltazione della forza motrice di questo sentimento, capace di rendere dolci anche i ricordi più tristi, dall’altro la percezione della sua precarietà, della sua finitezza, come leggiamo in “A Silvia”.
L’affanno e il dolore non inficiano però il godimento dei ricordi, come “Alla luna” sembra comunicare: forse, in fondo, questo componimento ci insegna l’importanza della capacità, che l’uomo ha o dovrebbe avere, di convivere con il lato dolceamaro dell’esistenza.

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LETTERATURA ITALIANA

“La lunga notte di Exilles”, di Laura Mancinelli

Per gli amanti del romanzo storico che però non vogliono rinunciare ad elementi quali l’ironia, la semplicità e la piacevolezza di una lettura estiva, suggerisco La lunga notte di Exilles, dell’autrice e studiosa di letteratura tedesca medievale Laura Mancinelli.

La vicenda si compone di 31 capitoli molto brevi, ciascuno completo di un titolo esplicativo, e si ambienta nel Settecento in una piccola città dell’alta val di Susa. Come la scrittrice specifica nella premessa, la cittadina apparteneva all’epoca ai francesi, ma sarebbe stata in seguito conquistata dai Savoia e annessa al Piemonte.

La storia è incentrata sulle vicende di un parroco, don Giasset, e della sua amante, la vedova Ballon: non era infatti infrequente che un sacerdote avesse delle relazioni con donne; ovviamente la cosa era sospettata da molti, ma il prete stava piuttosto attento a non far accorgere nessuno dei suoi incontri serali con madame Ballon.

Un giorno un uomo di Giaglione richiede a don Giasset la traduzione dal latino di un mystère, ovvero di una Sacra Rappresentazione, sorta di spettacolo teatrale con attori, suonatori, giullari che poi diviene anche una festa dove gli avventori mangiano, bevono e ballano. La vedova propone all’amante di mettere in scena una Sacra Rappresentazione in onore di San Rocco proprio ad Exilles, e, sebbene all’inizio il parroco sia contrariato per via dei possibili aspetti osceni e blasfemi di queste rappresentazioni, alla fine si lascia convincere. Sarà poi madame Ballon a cercare strategie per ottenere i fondi necessari allo spettacolo.

Jean Fouquet, il Martirio di sant’Apollonia, ambientato in una sorta di palcoscenico

Un giorno madame Ballon, presso la locanda di madame Léontine, incontra due ufficiali dell’esercito, con il più giovane dei quali intreccia una liason. Deve ovviamente nasconderla al primo amante, che tuttavia già inizia a sospettare dal momento che a cena dalla donna sente uno strano odore di mandorle: si trattava del buon profumo dell’ufficiale. La signora Ballon tenta di nascondere con fiori molto profumati questo odore forte, benché ormai il sospetto si sia insinuato nel sacerdote. Tuttavia ben presto l’idillio amoroso con il soldato termina a causa della partenza di quest’ultimo, avvenuta con gran dolore della vedova.

La storia si sofferma inoltre sulle vicende di altri concittadini dei due protagonisti, che appaiono come comparse formando una sorta di dimensione “corale” di verghiana memoria. Alcuni giovani ad esempio intendono deridere don Giasset con un pupazzo di neve che lo rappresentasse in modo osceno e comico: accortosene, il parroco modifica la “statua”, la quale alla fine verrà interpretata come una sorta di miracolo di S. Pietro in quanto intorno ad essa non era visibile impronta umana. Questo perché la superficie nevosa si era ghiacciata, cancellando le impronte di tutti i costruttori del pupazzo.

Madama Ballon riceve in sogno una visione di San Rocco che lamenta il fatto di non aver ricevuto ad Exilles alcuna Sacra rappresentazione in suo onore. Don Giasset userà questo sogno per spronare i notabili del paese a finanziare finalmente l’evento.

Durante la notte della rappresentazione, corredata da un succulento e godereccio banchetto, i Savoia si impadroniscono del forte di Exilles, approfittando dell’assenza dei soldati francesi. Questa ragione porta don Giasset a una maggiore prudenza nell’incontrare madame Ballon, nel timore di qualche provvedimento da parte dei bigotti Savoia.

Soldati e Caporale del Reggimento “Savoia Cavalleria” (3°) in tenuta di marcia, 1884-99

Salvato da Marco Maccatrozzo


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Così il nome del luogo cambiò: non era più “Delfinato”, ma “alta val di Susa”. Per il resto rimase tutto uguale, anche la lingua.

Il romanzo è piacevole e ci presenta un bell’affresco di una comunità e dei suoi piccoli e grandi segreti: per via di questa coralità, i personaggi sono più tipi che individui. Le deliziose descrizioni di paesaggi, oggetti e pietanze, pur nella loro essenzialità, contribuiscono a creare una atmosfera ben caratterizzata e realistica.

LETTERATURA DAL 1600 AL 1800, LETTERATURA ITALIANA

I “Canti” di Giacomo Leopardi

Della raccolta poetica i “Canti” di Giacomo Leopardi esistono tre edizioni:

  • Firenze, 1831
  • Napoli 1835
  • Firenze 1845 (postuma)

Il titolo “Canti” è indicativo del carattere lirico e soggettivo delle poesie, molto varie dal punto di vista della forma e del contenuto.

Dal 1818 al 1823 Leopardi scrive le Canzoni, ovvero componimenti di impianto formale classicistico che adottano uno schema metrico tradizionale e un linguaggio aulico e ricercato.

Fino al 1821 scrive canzoni incentrate su temi civili, caratterizzate da un certo pessimismo storico che si traduce nella critica alla società presente e nell’esaltazione delle età antiche.

Nel Bruto minore e nell’Ultimo canto di Saffo si delinea l’infelicità umana come condizione assoluta, e si esprime l’idea della malignità del fato. Le canzoni del 1822-23 celebrano la civiltà antica e l’immaginazione umana.

Mentre scrive le canzoni Leopardi si dedica anche agli Idilli, caratterizzati da un linguaggio semplice e musicale e da una poetica del vago e dell’indefinito. Gli idilli nell’antichità erano componimenti raffiguranti scene pastorali e legate alla natura. Anche gli idilli di Leopardi sono legati alla natura, ma con un’impronta più intima e soggettiva.

Dal 1828 Leopardi si dedica ai grandi idilli, caratterizzati dal pessimismo cosmico e dall’idea che l’infelicità sia condizione essenziale e immutabile. Se da un lato è presente il ricordo delle illusioni giovanili, dall’altro c’è la consapevolezza del vero, consistente nella convinzione dell’infelicità umana. La metrica è libera, con libera alternanza di endecasillabi e settenari (canzone leopardiana).

La Palinodia al marchese Gino Capponi è un tentativo di Leopardi di scardinare l’idea del progresso come raggiungimento una condizione di felicità per l’uomo. La visione leopardiana è pessimistica e materialistica, non vi è spazio quindi per la spiritualità e l’ottimismo progressista.

Tra il 1833 e il 1835 Leopardi vive la delusione amorosa in quanto non ricambiato da Fanny Targioni Tozzetti. Scrive pertanto un ciclo detto di Aspasia, che supera la poetica del vago e indefinito per approdare a un linguaggio aspro, antimusicale ed essenziale, con una sintassi complessa.

Il testamento poetico è rappresentato da La ginestra, un poemetto risalente al 1836, in cui Leopardi si scaglia contro l’ottimismo cattolico e liberale, senza però negare una possibilità di progresso, che consiste nell’unione solidale tra gli uomini contro la natura nemica. Solo così potrà fondarsi una società più giusta e civile.

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I Canti: commento di Guido Baldi

Nella sua poesia Leopardi esprime il suo pessimismo, ma non si tratta di un poeta adolescenziale e lamentoso. Leopardi è il poeta della vita in cui il pessimismo nasce da un bisogno di pienezza e di gioia vitale frustrato dalla condizione storica e naturale vissuta dall’uomo. Questo infatti è soggetto a dolore, malattie, vecchiaia. Il pessimismo nasce come reazione a tutto ciò.

Non si tratta di rassegnazione, quanto di protesta, di ribellione contro gli ostacoli che si frappongono alla felicità umana. La tensione vitalistica del poeta dà origine alle immagini serene disseminate nei Canti: le illusioni felici ivi presenti risentono senza dubbio dell’influenza foscoliana. Nelle Ricordanze L. sostiene che le illusioni non possono essere eliminate nemmeno dall’esperienza più negativa. Leopardi canta la gioia vitale e affronta comunque i problemi contemporanei, interviene nelle polemiche, segnalando la falsità dell’idea di progresso basato sull’espansione dei mercati e sull’innovazione tecnologica. Profetizza le sventure che arriveranno da questo falso progresso. L’idea di Leopardi sul progresso, evidenziata nella Ginestra, si basa sulla consapevolezza della infelicità connaturata alla dimensione umana. Avuta tale consapevolezza, gli uomini potranno cercare di rinsaldare la social catena, aiutandosi reciprocamente contro la natura matrigna che è la vera nemica. La poesia rinsalda la necessità di affratellarsi, di essere solidali, di fornirsi soccorso in caso di difficoltà.

Sul piano del linguaggio poetico Leopardi ha superato le forme chiuse della poesia tradizionale creando una poesia più libera in cui i versi si susseguono senza schemi strofici e metrici rigidi (ciò soprattutto nei Grandi idilli). Anche l’ultima poesia leopardiana è molto innovativa, per l’uso aspro e incisivo del linguaggio e per le innovazioni tematiche.

LETTERATURA ITALIANA, LETTERATURA MODERNA E CONTEMPORANEA

“Una questione privata” di Beppe Fenoglio: l’amore ai tempi della Resistenza

Il romanzo è opera dello scrittore piemontese Beppe Fenoglio, che inizia a scriverlo nel 1960. La vicenda è ambientata nelle Langhe piemontesi all’epoca della Resistenza, tra il 1944 e il 1945.

Trama

Il protagonista del romanzo è Milton, un giovane universitario ed ex ufficiale. È sensibile e non bello, lo caratterizzano però degli occhi notevoli, “tristi e ironici, duri e ansiosi”. Il narratore ci proietta subito in una dimensione passata, descrivendo i momenti che Milton ha trascorso tempo prima con la ragazza del suo cuore, Fulvia. La situazione presente è molto diversa: Fulvia si è trasferita da Alba a Torino, mentre Milton è partigiano nella squadra del Leo, presso Treiso. Un giorno Milton fa visita alla casa di Fulvia, dove trova la governante, la quale, parlando, rivela qualcosa che colpisce molto il ragazzo, e lo ferisce nel profondo… Infatti pare che Fulvia si intrattenesse in varie serate con il loro comune amico, Giorgio, sia all’interno della casa che all’esterno.

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Milton rimane sconvolto e decide perciò di spostarsi da Treiso per recarsi a trovare Giorgio, anche lui partigiano, presso la squadra di Pascal a Mango. Qui Milton attende l’amico, che si sarebbe dovuto trovare insieme agli altri del suo gruppo e invece pareva essersi attardato da qualche parte mentre tornava da una spedizione. Nell’attesa, Milton ripensa ad alcuni momenti vissuti con Fulvia e con il suo amico.

L’attesa però si fa sempre più lunga e il protagonista sente che qualcosa non va: c’era una nebbia del colore del latte quel giorno, e Giorgio poteva anche essersi perso o essere stato catturato dai fascisti. Con il tempo quest’ultima ipotesi si rivela vera e un contadino che aveva assistito alla scena racconta della cattura. Milton si attiva subito per aiutare l’amico e si reca al gruppo partigiano della Stella rossa per chiedere se avessero fascisti prigionieri, in modo da concretizzare un possibile scambio. Purtroppo la risposta è negativa: l’ultimo catturato era stato già giustiziato.

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Milton decide allora di recarsi al Comitato di Liberazione. Nel tragitto si ferma a mangiare a casa di una anziana signora, con la quale parla della situazione della guerra e che gli racconta qualcosa di sé.

Mentre cammina nottetempo cade nel fango e vede soldati della brigata fascista di San Marco di Canelli. Questi sono a loro volta osservati da uomini della collina, che li scrutano con odio e con la consapevolezza che la fine della guerra non sarà vicinissima. Milton ipotizza che questa fine accadrà a maggio.

In una vigna non lontanissima dalla caserma dei fascisti il protagonista incontra una vecchia, la quale gli porta, su sua richiesta, un sandwich di pane e lardo. A sorpresa, si rivela una preziosa alleata: gli indica infatti che un fascista, un sergente, è solito recarsi una o due volte al giorno, o verso le una, dopo il rancio, o verso le diciotto, presso la casa di una donna del luogo. La casa è quasi dirimpetto alla fine di un bosco di acacie, dove Milton si nasconde in attesa.

Assalito il sergente e minacciatolo con la colt, inizia a camminare spiegandogli il suo piano. Milton non intende ucciderlo, ma vuole scambiarlo ad Alba con il suo amico Giorgio. Il sergente è comunque spaventato, a tal punto che non crede al rapitore e prova a scappare; per questo Milton è costretto ad ucciderlo.

Il narratore introduce un’ellissi e ci conduce a Trezzo dove il protagonista incontra un partigiano di sua conoscenza, Fabio, vicecomandante di un presidio. A lui regala la beretta del fascista e da lui ottiene ospitalità per la notte, e mentre altri partigiani parlano della storia di una maestra fascista, Milton non riesce a dormire e pensa continuamente, non al sergente ucciso però. Ripensa a quanto la custode gli aveva riferito di Giorgio e Fulvia e decide che l’indomani avrebbe voluto vederci più chiaro.

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L’indomani a Canelli per vendicare il sergente ucciso si uccide il giovane Riccio, un quattordicenne che aveva aiutato i partigiani. Nel frattempo Milton è quasi arrivato ad Alba, alla villa di Fulvia. Pensa intensamente al suo amore per lei quando viene sorpreso da uno squadrone di fascisti. Inizia a correre mentre sente intorno a sé il rumore degli spari che fendono l’aria.

Il finale è lasciato in sospeso…

Commento

Il romanzo sembra incompiuto, racconta di una ricerca di risposte mai soddisfatta, forse potrebbe dirsi metafora dell’esistenza intera. Il protagonista è tratteggiato fisicamente e anche caratterialmente, e la sua figura in un certo senso si delinea nello svolgersi dei fatti. Tale svolgimento è rapido e affollato di parole, di azioni e di luoghi.

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Potremmo individuare un doppio binario nel testo: da un lato l’aspetto emotivo e interiore di Milton, dall’altro il suo concreto agire nei luoghi della Resistenza, il suo interloquire con un mosaico di personaggi più o meno rilevanti. Il secondo è chiaramente dettato dal primo, in particolare dall’amore nutrito per Fulvia, che appare davvero il motore propulsore della storia. In effetti l’amore per la ragazza, che si rintraccia nei ricordi di Milton e sembra essersi realizzato in un lontano passato, spinge il protagonista a revocare tutto in dubbio, ad agire, a voler comprendere la verità dalla voce del suo amico, se tale ancora può dirsi. Sembra che tutti i sentimenti siano perciò oggetto di decostruzione, di dubbio e rimangano come sospesi in attesa di un giudizio.

Un altro personaggio del romanzo sono forse i luoghi: i boschi piemontesi, la nebbia, il fango, le vigne. Il narratore li dipinge con dovizia di particolari, particolari assolutamente relati al punto di vista dei personaggi, al loro contatto con l’esterno; emerge con una certa chiarezza l’atmosfera di precarietà, di freddo, di paura di violenza. I dialoghi tra i personaggi rivelano una certa familiarità tra individui e ambienti, e al contempo il senso di rassegnazione per una guerra che costringe a imporre la morte per salvare la propria vita.

Tuttavia pure nel dolore di un evento come la Resistenza, nascosto e al contempo assolutamente pubblico e collettivo, campeggia grandemente “una questione privata”, un amore forse unilaterale, ma capace di porre tutto, anche la vita stessa, su un piano secondario.

LETTERATURA ITALIANA, LETTERATURA UMANISTICA E RINASCIMENTALE

“Questa vita mortal, che ‘n una o ‘n due” – Il sonetto 64 delle Rime di Giovanni della Casa

Il libro delle Rime di Giovanni Della Casa si chiude con un sonetto che invita alla contemplazione del Creato; lascia aperto un interrogativo e prevede un invito implicito ad affidarsi a una maestà divina che è stata così grande nella sua opera. La concezione dell’Universo è panteistica.

Questa vita mortal, che ‘n una o ‘n due
brevi e notturne ore trapassa, oscura
e fredda; involto avea fin qui la pura
parte di me ne l’atre nubi sue.

Or a mirar le grazie tante tue
prendo: ché frutti e fior, gelo ed arsura,
e sí dolce del ciel legge e misura,
eterno Dio, tuo magisterio fue.

Anzi ‘l dolce aer puro, e questa luce
chiara, che ‘l mondo a gli occhi nostri scopre,
traesti tu d’abissi oscuri e misti.

E tutto quel che ‘n terra o ‘n ciel riluce,
di tenebre era chiuso, e tu ‘apristi;
e ‘l giorno e ‘l Sol de le tue man son opre.

Parafrasi

Questa vita mortale, che passa in una / o in due brevi ore notturne oscura e /fredda; aveva avvolto fin qui la parte più pura di me / nelle sue nubi nere.

Ora inizio ad osservare le tue tante grazie, perché i frutti e i fiori / il gelo e il caldo e una così dolce legge e misura del cielo / furono tuo magistero, o eterno Dio.

Anzi tu hai sottratto dagli abissi oscuri e tenebrosi / la dolce aria pura e questa luce chiara / che svela il mondo ai nostri occhi.

E tutto ciò che in cielo e terra risplende / era chiuso nelle tenebre e tu l’hai aperto; / e il giorno e il sole sono opere delle tue mani.

Commento al contenuto

Nella prima quartina sembra che il poeta esprima il tradizionale concetto della fuga del tempo; ma la vita mortale, così breve, aveva un carattere oscuro, e sembrava aver avvolto l’autore nella sua parte più pura, corrompendolo. Nella seconda quartina notiamo uno stacco cronologico, infatti si osserva la congiunzione temporale “ora”: adesso il poeta osserva tutte le bellezze della vita, oggetto della creazione divina.

Le terzine proseguono la celebrazione del creato, opera di Dio, che viene sostanzialmente celebrato come grande Fattore della luce, intesa non solo nel senso letterale, ma probabilmente anche in modo metaforico. La luce dunque potrebbe significare la positività della vita mortale, la serenità e tutto ciò che di bello esiste, intimamente connesso al divino. Vediamo il gioco di luci e ombre, l’ombra connessa al peccato e alla notte, la luce che invece allude al sole, al giorno, all’aria dolce e pura.

In Della Casa è possibile osservare una certa ricercatezza nelle desinenze, un enjambement, e la singolarità del trapasso dalla prima e seconda quartina e dalla prima e seconda terzina: infatti nella seconda quartina si passa dall’esperienza personale a una dimensione più vasta, mentre nel passaggio tra le terzine c’è continuità perfetta.

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Commento metrico-retorico e fonti del sonetto

Forma: sonetto di endecasillabi

Schema metrico: ABBA ABBA CDE CED

Rime: arsura v. 6-misura v. 7 (rima ricca, in comune c’è -ura ma anche la -s) / scopre v. 10 – opre v. 14 (rima inclusiva)

v.1: questa vita mortal richiama alla prosa del Cortegiano di Castiglione, in cui talvolta si incastrano degli endecasillabi

V. 5 Iperbato

Nubi nere: rimando a carmi di Orazio (Carmina 16,2) in cui si parla di atra nubes

V. 11: Richiamo a vecchio testamento (Genesi, I, 2) Et tenebrae erant super faciem abyssi; è l’inizio della Bibbia, in cui si parla di stato primordiale a cui si contrappone poi la grandezza della creazione. Osserviamo anche Genesi, I,5 Et divist lucem a tenebris.

LETTERATURA LATINA

Le usanze dei Germani (adattamento da Cesare, “De bello gallico”, VI, 22)

Cesare descrive usi e costumi dei Germani.

Agri culturae non student, et magna pars eorum victus in lacte, caseo, carne consistit. Non habent agri modum certum aut fines proprios, sed principes in annos singulos gentibus cognationibusque hominum agrum adtribuunt numero aptum et, anno post alio, mutare sedem cogunt. Eius rei multae indicantur causae: ne, adsidua consuetudine capti, studium belli agri culturā commutent; ne latos fines parare studeant neve principes ex possessionibus humiles expellant; ne, contra frigora atque aestus, firmas casas aedificent; ne augeatur pecuniae cupiditas et eā causā factiones dissensionesque in civitate erumpant; ut animi aequitate principes contineant plebem, videntem opes suas cum illis aequari. Civitatibus summa laus est habere circum se solitudines: hoc proprium virtutis existimant, non concedĕre aliis ut apud se consistant.

TRADUZIONE

Non si occupano dell’agricoltura, e la gran parte del loro cibo è composto da latte, formaggio e carne. Non hanno una misura fissa di campi o territori propri, ma i nobili ogni anno assegnano alle famiglie e ai parenti di uomini un terreno adatto al numero e, anno dopo anno, costringono a cambiare sede. Sono indicate molte cause di questo fatto: affinché, presi da costante abitudine, non cambino con l’agricoltura l’impegno della guerra; affinché non si impegnino per ottenere territori ampi o i principi non estromettano gli umili dai possedimenti; affinché non costruiscano edifici stabili, contro il freddo e il caldo; affinché non aumenti il desiderio di denaro e per questo motivo esplodano fazioni e discordie in città; affinché i nobili contengano con l’equità d’animo la plebe, che vede pareggiare le proprie ricchezze con le loro. E’ motivo di molta lode per i cittadini avere intorno a sé solitudine: reputano questo proprio del valore, non concedere agli altri di fermarsi presso di loro.

Rappresentazione pittorica di un assalto di popolazioni germaniche all’esercito romano. Di Otto Albert Koch – http://www.lwl.org, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6381946

COMMENTO

Per come è vista da Cesare, la cultura germanica appare molto differente dalla civiltà romana. Infatti i Germani non praticano l’agricoltura e si nutrono di carni e latte. Non sono sedentari e cambiano sede continuamente, affinché non si rammolliscano e non si leghino troppo alla terra. Infatti edifici stabili abituano a una certa comodità, mentre i Germani devono mantenere una tempra durissima per fronteggiare guerre e asperità del clima.

Inoltre la proprietà privata è rischiosa anche perché potrebbe incentivare alcuni a volerne conquistare sempre di più e i principi a spodestare i più umili. La terra dunque può essere motivo di conflitto, che i capi vogliono evitare.

La solitudine è un valore, sono reputati infatti migliori coloro che hanno la capacità di non far avvicinare nessuno.

Il testo è attraversato da numerose proposizioni finali, affermative e negative, con il verbo al congiuntivo presente.

LETTERATURA STRANIERA

“I dolori del giovane Werther” di Goethe

I dolori del giovane Werther è un romanzo epistolare dello scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe, in cui il protagonista racconta la propria storia attraverso le lettere che invia all’amico Guglielmo. Le vicende prendono forma perciò grazie al ritmo serrato delle missive, datate 1771; ad un tratto la narrazione in prima persona è interrotta per lasciare spazio alle parole dell’editore, che chiariscono gli eventi conclusivi dell’intreccio.

Come emerge dal titolo, i protagonisti dell’opera sono Werther, la sua giovinezza e i suoi dolori. Tutto ruota intorno al giovane, che dà puntuale rappresentazione di se stesso e del mondo circostante; gli altri personaggi esistono in relazione a lui, e nel modo in cui egli crede che esistano. Fin dal primo incontro con la protagonista femminile, Carlotta, Werther rimane affascinato: le attribuisce ben presto qualità lodevoli, ovvero semplicità, intelligenza, bontà, carattere e solerzia. La idealizza e la ama in modo totalizzante, tuttavia l’amore non può essere dichiarato, né tantomeno ricambiato alla luce del sole: Carlotta è infatti promessa sposa ad Alberto, di cui Werther diverrà amico. Il sogno di possedere l’oggetto del proprio desiderio si scontra quindi con la realtà: l’incapacità di adattarsi agli eventi esterni, a causa della forza assoluta del proprio sentire, condurrà il protagonista ad un’estrema decisione.

Definirei quella di Werther la vicenda romantica di sentimenti mai ricondotti al lume della ragione. In più punti del testo epistolare il giovane dissemina la sua filosofia di vita, anarchica ed emotiva; essa emerge ad esempio nel discorso relativo all’arte: un artista che segue le regole, pur producendo qualcosa di non brutto, tuttavia distrugge il sentimento della natura.

Si ridimensiona così non solo il valore di leggi e regole, che sono certo frutto della ragione, ma persino quello della conoscenza: ciò che Werther sa, chiunque lo può imparare, ma solo lui possiede il suo cuore.

El Beso (Pinacoteca de Brera, Milán, 1859).jpg

Francesco Hayez, Il bacio, 1859, Milano, Pinacoteca di Brera.