STORIA ANTICA

Uomini schiavi e uomini liberi: la schiavitù a Roma

In latino classico “schiavo” si dice servus; nel latino medievale esisteva invece una parola, sclavus o slavus, che indicava i prigionieri di guerra slavi, ridotti in gran parte in schiavitù. Il termine passò poi ad indicare gli schiavi in generale.

Probabilmente la schiavitù nasce a Roma fin dalla sua fondazione ed è stata determinata da operazioni di razzia nel Lazio o da insolvenza dei debiti.

Lo schiavo era, come dice Varrone (De re rustica, I 17, 1) un instrumenti genus vocale, “un tipo di strumento dotato di voce”: i campi d’azione di questo strumento erano principalmente due, l’agricoltura e il servizio domestico.

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La cattura di uno schiavo in un rilievo romano.

Schiavi e mondo agricolo

Gli schiavi lavoravano nei latifondi, controllati dal vilicus, un fattore, spesso schiavo anch’egli, che ripartiva le mansioni da svolgere; oppure potevano lavorare in un allevamento. Era importante che gli schiavi non si ammalassero e non morissero, per non causare perdite economiche al padrone. La concezione della massimizzazione del profitto in campo agricolo si ravvisa bene nel De agri cultura di Catone censore (234-149 a.C); gli schiavi vi sono visti alla stregua di oggetti, ed è inoltre specificata persino la quantità di cibo da assegnare loro:

Cibo per gli schiavi. Per chi lavora nei campi: d’inverno quattro moggi di frumento (34,5 kg), d’estate quattro moggi e mezzo (39 kg); per il fattore, la fattoressa, il guardiano e il pecoraio tre moggi (26 kg); per gli schiavi legati: d’inverno quattro libbre (1,2 kg) di pane; quando incominceranno a sarchiare la vigna cinque libbre (1,5 kg) finché incominceranno a maturare i fichi: allora tornerai a quattro libbre. (De agri cultura 56).

In seguito, nel De agri cultura di Columella (4-70 d.C), si specifica che è necessario procurare agli schiavi il giusto vestiario, affinché possano lavorare con ogni condizione climatica; è inoltre opportuno sorvegliare gli schiavi continuamente, in modo tale che compiano con esattezza il loro lavoro, e, stanchi, desiderino riposarsi piuttosto che abbandonarsi ai piaceri.

In realtà il lavoro degli schiavi rovinò l’economia agraria di Roma, in quanto i piccoli coltivatori liberi non reggevano la concorrenza dei grandi latifondi, e non trovavano nemmeno lavoro come salariati, vista la grande quantità di schiavi disponibili a prezzi inferiori. Sia per queste difficoltà, sia per la lontananza degli agricoltori dai propri campi dovuta alla partecipazione alle guerre di espansione, si ebbe già dal I secolo a.C uno spopolamento delle campagne. A partire dal III secolo la crisi economica fu irreversibile. Del resto, l’uso degli schiavi scoraggiava anche la ricerca di nuovi strumenti per una coltivazione più efficace.

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Bassorilievo marmoreo con schiavi intenti a pigiare l’uva (inizi del II sec. a.C)

Gli schiavi domestici

Oltre al lavoro agricolo, molti schiavi erano impiegati in quello domestico, utile ad assicurare il funzionamento della casa, la cura della persona, della cucina, della scuderia ecc. Questi schiavi avevano una vita meno dura, e facevano parte della familia, ovvero dell’insieme dei componenti della casa. C’erano anche schiavi che si dedicavano ad attività produttive, e non era infrequente trovare fabbri, vasai, orefici, fabbri, scalpellini, librai ecc. Le uniche attività da cui erano esclusi erano quella politica e quella militare.

Lo schiavo: un oggetto che può riscattarsi

Schiavi si nasceva o si diventava, in ogni caso si era ritenuti inferiori dal punto di vista giuridico; certo un padrone poteva comportarsi bene con gli schiavi, ma questo rientrava in una scelta personale. Lo schiavo è un bene mobile e come tale può essere venduto; può essere tuttavia acquistato anche da se stesso e quindi diventare libero: è il caso dei liberti.

Gli schiavi liberati avevano la possibilità di amministrare un piccolo peculium (all’inizio un piccolo gregge, poi un modesto capitale) affidato loro dal padrone perché lo sfruttassero a proprio vantaggio. Interessante leggere nel Satyricon di Petronio (I secolo d.C) la vicenda di Trimalchione, liberto arricchitosi grazie alla buona sorte:

75. Sono arrivato dall’Asia che ero alto come questo candelabro. Per farla breve, mi misuravo ogni giorno con lui e per avere prima peli sul mento mi ungevo le labbra con l’olio della lucerna. (11) Peraltro per quattordici anni fui l’amasio del padrone. Non è vergogna quello che comanda il padrone; io però soddisfacevo anche la padrona. Sapete quello che intendo dire senza che lo dica: io non sono di quelli che si vantano. 76 (1) A ogni modo, come dio volle diventai padrone in casa e mi conquistai il cervello del padrone. (2) Insomma, mi fece erede assieme all’imperatore e ricevetti un patrimonio illustre. (3) A nessuno però basta mai niente. Volli dedicarmi al commercio. Per non farvela lunga, fabbricai cinque navi, le caricai di vino, che allora valeva come oro, e le spedii a Roma. (4) Ma neanche l’avessi ordinato, tutte naufragarono; è un fatto, non una balla. In un giorno solo Nettuno si mangiò trenta milioni. Pensate che io mi sia abbattuto? (5) Non mi sono neanche scomposto: come niente fosse stato. Ne fabbricai altre, migliori e più fortunate, al punto che tutti parlavano della mia forza d’animo. (6) In effetti, più è grande la nave, più è grande la forza. Le caricai di nuovo di vino, di lardo, di fave, di profumi, di schiavi. (7) In questa occasione Fortunata fece una cosa commovente: vendette tutto il suo oro e i suoi vestiti e mi mise in mano cento monete. (8) Questo fu il lievito delle mie sostanze. Quello che gli dei vogliono succede alla svelta. Con un viaggio solo feci su dieci milioni di sesterzi, e subito riscattai tutti i fondi appartenuti al mio patrono. Mi faccio la casa, acquisto schiavi e animali da tiro, tutto ciò che toccavo cresceva come un favo. (9) Quando possedetti più di tutta la mia città messa insieme, basta coi libri (mastri): mi ritirai dal commercio e mi misi a prestare ai liberti. (Satyricon, 75, 76)

Trimalchione dunque si è arricchito nel tempo, ed è molto sensibile al tema della uguale dignità umana degli schiavi, essendo stato schiavo lui stesso; per tale motivo intende affrancare tutti i suoi, mediante un testamento.

Certo, in teoria il liberto aveva la stessa cittadinanza del patrono, in realtà gli doveva un obsequium, un rispetto filiale e manteneva spesso una certa dipendenza, dovendo svolgere per lui alcune prestazioni. Per il resto gli schiavi liberati potevano svolgere tutti i mestieri e le professioni, e anche migliorare le proprie finanze lavorando.

A partire dall’imperatore Claudio (41-54 d.C), accadde che gli imperatori, non potendo fidarsi dei senatori, affidavano incarichi amministrativi di fiducia ai liberti, che iniziarono dunque ad avere un certo peso a corte. Probabilmente gli uomini di rango senatorio erano estremamente ostili a questi potentissimi liberti.

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Busto dell’imperatore Claudio (Museo archeologico nazionale, Napoli)

 

La posizione degli schiavi si mostrava comunque decisamente subalterna, e non di rado i liberti stessi si macchiavano di azioni crudelissime verso i loro schiavi: questo dimostra che mancava un certo desiderio di migliorare l’assetto sociale, alleviando le dure condizioni di vita implicate dal regime schiavistico.

Da A. Roncoroni (a cura di), “Le ali della libertà”. Uomini schiavi e uomini liberi in Seneca, Tacito, Agostino, Carlo Signorelli editore.