LETTERATURA DAL 1600 AL 1800, LETTERATURA ITALIANA

Lo “Zibaldone” di Leopardi – una sintesi

In questo testo Leopardi espone le teorie letterarie e filosofiche su cui si fonda la sua produzione in prosa e versi. Si tratta di una sorta di diario intellettuale redatto tra il 1817 e il 1832, pubblicato postumo nel 1898.
Il titolo significa “mescolanza confusa di cose diverse“, poiché si tratta di pensieri sparsi, espressi in modo frammentario e asistematico.

L’opera si collega ai testi letterari del poeta; la sua visione prende le mosse dal materialismo e dal sensimo settecenteschi, da cui il poeta ricava la concezione della felicità come uno stato di piacere dei sensi, che è un desiderio infinito; l’uomo non può però raggiungere questo tipo di piacere, perché gli oggetti che lo dovrebbero soddisfare sono finiti. Quindi l’uomo è destinato all’infelicità, placata solo dall’ingenuità fanciullesca e dall’ignoranza del vero.
In una prima fase il pessimismo leopardiano è stato definito storico, in quanto l’uomo era reputato più felice nelle epoche passate, quando non era ancora presente il progresso della ragione ed apparivano molto più forti le illusioni e le immaginazioni, rimedi offerti dalla natura benigna contro l’infelicità.
Di conseguenza l’infelicità moderna è data dall’allontanamento dalla natura, dall’abbandono dell’immaginazione e dal trionfo dell’arido vero. Rispetto all’inerzia e alla corruzione del mondo contemporaneo Leopardi assume un atteggiamento di sfida solitaria e titanica.

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Intorno agli anni 1820-1824 il pessimismo storico evolve in pessimismo cosmico: la natura ora è vista matrigna, l’infelicità è considerata una condizione assoluta e universale, senza tempo. L’atteggiamento non è più di eroica sfida, ma di rassegnata ironia.
Secondo la teoria del piacere, l’immaginazione è l’unica fonte di benessere, in quanto è in grado di fornire un illusorio appagamento rispetto al bisogno infinito del piacere stesso. Quello che produce piacere in poesia sono quindi le immagini e i suoni vaghi e indefiniti, capaci di evocare sensazioni che ci hanno affascinato da piccoli. La poesia è quindi il recupero della visione immaginosa della fanciullezza attraverso la rimembranza. Maestri in questo tipo di poesia sono gli antichi, autori di una poesia ingenua, nutrita di ricordi e di immaginazione. I moderni producono invece una poesia sentimentale e disincantata, che osserva e contempla la miseria della condizione umana.
Nella polemica tra classicisti e romantici Leopardi si schiera a favore dei primi; ai romantici italiani Leopardi rimprovera una eccessiva aderenza al vero e alla ragione. Tuttavia non apprezza nemmeno il classicismo accademico e pedantesco, mentre è nostalgico della poesia antica, reputata felice e immaginosa. Di conseguenza Leopardi considera positivo il recupero dell’antico, del primitivo, reputando i romantici italiani eccessivamente “aridi” e “razionali”. Per l’originalità del suo punto di vista il classicismo leopardiano è stato definito “romantico”.

LETTERATURA DAL 1600 AL 1800, LETTERATURA ITALIANA

Leopardi e la teoria del piacere

L’anima umana aspira sempre al piacere, ovvero alla felicità. Questo desiderio è connaturato all’esistenza ed è infinito, illimitato, mentre i piaceri sono di per sé finiti. Infatti il desiderio non ha limiti di durata e di estensione, mentre i piaceri esistono in modo limitato e circoscritto. L’uomo desidera non UN piacere, ma IL piacere, pertanto una volta ottenuto qualcosa, lo sentirà troppo piccolo, limitato per estensione o per durata, rispetto al suo desiderio infinito. Tutti i piaceri sono pertanto misti di dispiacere, perché l’anima non ne risulta mai appagata nelle sue aspirazioni infinite.


C’è nell’uomo una facoltà immaginativa che può concepire le cose che non esistono e dato che l’uomo tende al piacere in modo innato, facilmente immaginerà i piaceri, infiniti in numero, durata ed estensione. Quindi, venendo a coincidere il desiderio infinito con l’immaginazione infinita, ne deriva che la felicità risiede non nella realtà, ma proprio nell’immaginazione e nelle illusioni.
La natura ha quindi supplito alla mancanza di piaceri reali infiniti attraverso le illusioni e con l’immensa varietà dei piaceri. Questi ultimi infatti sono tanto vari che difficilmente si ha il tempo di realizzarne la finitezza. Sicuramente gli antichi, così come i fanciulli, avevano una maggiore capacità immaginativa: infatti con il tempo è aumentata la cognizione del vero, ma questa definisce le cose e circoscrive l’immaginazione, limitandone la tensione verso la felicità. Quindi l’ignoranza ha una maggiore propensione per l’immaginazione, quest’ultima “opera” di più appunto negli ignoranti e li rende più felici di quanto non faccia con gli istruiti. Gli uomini meno profondi inoltre sentono meno la pena per la finitezza dei piaceri, percepiscono meno questo loro essere finiti.

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Dunque in conclusione:
I beni sembrano bellissimi da lontano;
L’ignoto è più bello del noto;
L’anima preferisce il bello vago, le idee infinite;
Talvolta l’anima desidera una veduta ristretta e confinata e in questo caso lavora l’immaginazione al posto della vista. Il fantastico subentra così alla realtà, perché l’anima si immagina quello che non esiste.