STORIA MEDIEVALE

L’invenzione della stampa

Il libro a stampa

La stampa venne introdotta in Germania a metà del 1400; qui, nell’alta valle del Reno, esisteva già una tecnica di riproduzione di brevi testi e immagini basata sull’utilizzo di matrici in legno duro incise a rilievo o a incavo, poi inchiostrate e impresse su carta o pergamena. Questa tecnica si chiama xilografia.

Esempio di Xilografia, Di Emil Eugen Sachse – Zweihundert Bildnisse und Lebensabrisse berühmter deutscher Männer, 3rd ed., Leipzig 1870, editor Ludwig Bechstein (Google Books);already present in first edition (1854) : Google Books, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=47049249

Il limite della xilografia era che gli stampini in legno potevano riprodurre soltanto testi brevi, data la difficoltà a sviluppare lunghe linee di testo continue dovendo incidere i caratteri a rovescio (la destra e la sinistra erano invertite); inoltre il foglio stampato poteva essere utilizzato solo da un lato, a causa della profondità dell’impronta, e ogni matrice poteva contenere un solo testo per cui andava sempre incisa di nuovo per stampare opere diverse. Inoltre le matrici avevano una durata breve perché il supporto di legno andava soggetto a una naturale consunzione. La xilografia si sviluppò in effetti in concomitanza con la lavorazione del legno, mentre la stampa si collega da subito al mondo della lavorazione dei metalli.

L’orefice tedesco Johannes di Gutemberg (1394-1468) inventò una soluzione per produrre in serie i singoli caratteri tipografici; questi caratteri potevano essere combinati insieme su delle forme metalliche per dare origine a sequenze di lettere, righe, pagine e quindi testi pronti per essere inchiostrati e successivamente impressi su carta.

Dal 1450 Gutemberg impiantò un’officina per la stampa libraria a Strasburgo: qui venne stampata in 180 copie la grande Bibbia latina in due volumi, detta anche la Bibbia delle 42 righe, dal numero di linee per ogni pagina. Ben presto l’impresa tipografica fallì e Gutemberg lavorò in altre officine, trasmettendo il proprio sapere ai suoi collaboratori.

Una pagina della Bibbia di Gutemberg
Di Johannes Gutenberg – From a scan at the Ransom Center of the University of Texas at Austin http://www.hrc.utexas.edu/exhibitions/permanent/gutenberg/, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=409361

Il sistema della stampa

Il procedimento di stampa attraversava queste 3 fasi:

  1. Il progetto grafico delle lettere;
  2. L’incisione dei punzoni;
  3. La fusione del carattere.

I grafici riproducevano la scrittura dei codici; queste erano le tipologie di carattere usate in ambito italiano: il gotico (o littera moderna),  il tondo (o littera antiqua, che si ispira all’antica minuscola carolina) e il corsivo.

Definito il carattere, era necessario incidere il contropunzone in acciaio dove veniva trasferito il disegno della lettera; in seguito si riscaldava un punzone, sempre d’acciaio, per ammorbidirlo e renderlo atto a ricevere l’impronta del contropunzone. L’impronta diventa poi la cavità che riceve il metallo fuso, una volta posta nella forma. La forma è lo strumento che ospita le matrici ed è fatta da due parti metalliche coperte di legno in funzione isolante. Si colava una lega di metalli (piombo, stagno, antimonio, bismuto) nella matrice e successivamente si estraeva il carattere, che veniva ulteriormente lavorato. Si facevano moltissime fusioni ogni giorno, circa 3-4000, di varie grandezze e fatture a seconda del disegno dell’alfabeto.

Un punzone (a sinistra) e la matrice da lui prodotta (a destra)
Di Theodore Low De Vinne (1828-1914) (author of the book for copyright purposes; no engravers identified)(Made by combining two illustrations from the book source and digitally cleaned up by uploader) – The Practice of Typography: Modern Methods of Book Composition (1904), New York: The Century Co., p. 16 and 17. Digital scan available at https://archive.org/details/practiceoftypogr1904devi, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=24438612

Data la grande perizia necessaria per la corretta composizione chimica della lega metallica, i più grandi stampatori furono proprio i professionisti del metallo (incisori, fonditori, orafi, argentieri).

I caratteri venivano poi composti sulle pagine collocate sulla forma; l’insieme delle pagine veniva poi posto su un carrello portaforma che veniva inchiostrato e passato sotto il torchio. La disposizione delle pagine nella forma doveva essere stabilita in anticipo in modo da calcolare con esattezza l’ordine che ogni facciata avrebbe assunto una volta piegato il foglio.

In caso di prime stampe era inoltre necessario suddividere il manoscritto in tante porzioni prevedendo la quantità di testo e di caratteri necessari per comporre la pagina tipografica. Il compositore doveva leggere il testo, prendere i caratteri dai cosiddetti “cassettini” e disporre le lettere in ordine inverso a quello naturale, ovvero da destra verso sinistra.

Il piano portaforma veniva collocato su un carrello posizionato su rotaie che si spostavano sotto la pressa, denominata “platina”. Il cosiddetto tiratore azionava la platina e imprimeva il foglio sulla forma inchiostrata. Esisteva anche un battitore che si occupava dell’inchiostrazione delle forme mediante due tamponi di lana o pelo, detti mazzi.

La stampa a caratteri mobili in una xilografia del 1568
Di Jost Amman – Meggs, Philip B. A History of Graphic Design. John Wiley & Sons, Inc. 1998. (p 64), Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2777036

L’inchiostro era composto da un pigmento scuro ricavato dalla fuliggine, sciolto ad alta temperatura in olio di lino.

La carta doveva essere morbida ed elastica in modo da non lacerarsi e al contempo densa abbastanza da non far trasparire l’inchiostro; essa era il prodotto della lacerazione degli stracci, dalla quale si otteneva una pasta densa che veniva raccolta in un telaio e fatta asciugare singolarmente; al centro del foglio era visibile la filigrana, ovvero il marchio di fabbrica della cartiera di provenienza. Il costo della carta veniva addebitato al cliente che commissionava l’edizione.

Inizialmente gli incunaboli, cioè i testi stampati fino al 1500, avevano le stesse dimensioni dei manoscritti, variabili anche in base al genere del libro; in seguito i formati divennero più piccoli per questioni di costo.

Incipit del Lattanzio impresso nel monastero di Subiaco, il primo incunabolo con data certa (29 ottobre 1465) stampato in Italia
Di Lactantius (text); Arnold Pannartz and Konrad Sweynheim (printers) – http://www.summagallicana.it/lessico/l/Lattanzio.htm, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=12866999

Il formato di un volume a stampa dipende dal numero di piegature di un singolo foglio: maggiore è il numero, minore è il formato del libro. Per individuare il formato si fa spesso riferimento alla posizione della filigrana, che varia in base alle piegature, oppure in base all’orientamento dei filoni e delle vergelle (cioè linee verticali e orizzontali determinate dai fili di rame del telaio usato per produrre la carta).

Si calcola che un’officina tipografica lavorasse 10-12 ore al giorno imprimendo 1250 fogli circa; al momento dell’introduzione della stampa la tiratura media fu di circa 300-500 esemplari, e arrivò a 1000 copie verso la fine del secolo.

FONTE:

AA.VV, Breve storia della scrittura e del libro, Carocci, 2016, pp. 85-100.

STORIA MEDIEVALE

Come gli umanisti hanno cambiato la scuola

Francesco Petrarca odiava la scuola, e aveva un’opinione molto negativa degli insegnanti. Ebbene sì, stiamo parlando proprio di uno dei più grandi letterati italiani, uomo di profonda cultura, fine conoscitore dei testi latini. In una delle sue epistole Familiares, la XII-2, esorta l’amico Zanobi da Strada, maestro di scuola, a lasciar perdere l’insegnamento, mestiere adatto a chi non è capace di far di meglio e non ha ambizioni in termini di guadagno e di gloria. Gli insegnanti, sostiene il poeta, amano sentire sotto di sé esseri inferiori da poter tiranneggiare, terrorizzare e torturare. I veri maestri invece, per il poeta toscano, sono i grandi autori latini del passato.

Forse questo parere troverà concordi molte persone ancora oggi, tuttavia conviene dare uno sguardo all’organizzazione della scuola nel Medioevo. Nella civiltà dei Comuni esistevano sia scuole vescovili sia scuole laiche, dovute o all’iniziativa privata di un singolo o di una corporazione oppure all’azione pubblica, con maestri stipendiati dal Comune. Esistevano poi due livelli di scuola, quello dei non latinantes e quello dei latinantes (coloro che imparavano a comporre in latino).

  • Non latinantes:
  • Pueri de tabula (tabula=foglio di carta), imparavano a leggere e a scrivere; il loro libro di riferimento era il Salterio, ovvero il testo che raccoglieva i Salmi.
  • Donatisti: coloro che iniziavano a studiare la morfologia del latino, imparando a memoria le regole del Donatus, una grammatica molto usata all’epoca. Il libro di lettura erano i Disticha Catonis, ovvero una raccolta di sentenze in esametri.
  • Latinantes:
  • Minores: proseguivano con lo studio della grammatica latina sul Doctrinale di Alessandro di Villedieu e leggevano gli auctores minores, tra cui ad esempio Esopo.
  • Proseguivano poi con gli auctores maiores (ad esempio Virgilio, Ovidio, Terenzio, Lucano, Stazio, Seneca), guidati da un auctorista.

Studenti di filosofia alla Sorbona di Parigi, in abiti e tonsura da chierici (Grandes Chroniques de France)
Di sconosciuto – Castres, bibliothèque municipale, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3915867

Sferzate e punizioni corporali erano, nella scuola medievale, all’ordine del giorno; se ci aggiungiamo poi che i cosiddetti auctores minores erano considerati di bassa qualità da Petrarca, non è difficile capire perché il grande poeta avesse una pessima considerazione dell’istituzione scolastica. Del resto egli stesso era un vero autodidatta, imparava da solo grazie alla lettura dei grandi autori latini del passato.

Petrarca, per quanto pre-umanista, era ancora immerso in una mentalità decisamente medievale. Ma in pieno umanesimo, circa un secolo dopo, molti uomini di cultura misero la scuola al centro della loro riflessione e iniziarono ad elaborare nuove teorie pedagogiche.


Niccolò Perotti, ”Rudimenta grammatices’ 1468. A sinistra un libro manoscritto (che funge da ”exemplum”) e, a destra, la corrispondente pagina stampata.

Gli umanisti, che avevano riscoperto il latino dei classici, non potevano essere concordi con l’idea di un’educazione basata sul latino corrotto e imbarbarito degli auctores minores , né ritenevano di buona qualità i manuali scolastici in uso. Per queste ragioni cercarono di modificare la scuola dal suo interno, elaborando nuove teorie educative e didattiche:

  • Le punizioni fisiche non servivano all’educazione dei fanciulli;
  • Era necessario studiare in modo diretto gli autori latini, snellendo lo studio della grammatica;
  • Si doveva curare molto la pronuncia, l’ortografia, la metrica, il lessico;
  • Molto utile era la traduzione di brevi frasi dal volgare al latino e la composizione libera di testi;
  • Il maestro e i fanciulli dovevano conversare in latino;
  • Grande importanza avevano le discipline scientifiche e la filosofia.

Fondamentale era inoltre per gli umanisti che i fanciulli avessero una buona conoscenza dei concetti, ma anche che sapessero esprimerli in modo degno, ricco, adorno. Dal momento inoltre che era stato riscoperto il greco grazie al maestro bizantino Crisolora, anche questa lingua diventò oggetto di insegnamento.

Tra gli umanisti, i maggiori pedagoghi furono Guarino Veronese e Vittorino Rambaldoni. Il primo sosteneva che il fanciullo dovesse sviluppare la sua persona in modo completo, e per questo riteneva importanti anche l’educazione fisica, l’attività sportiva e la socialità tra i discenti. Vittorino invece poneva molto l’accento sulla rettitudine morale dei giovani e sulla loro attitudine alla riflessione interiore, legata anche allo studio approfondito dei testi sacri. Gli umanisti, spesso, scrissero delle grammatiche del latino ad uso dei propri studenti: ne sono esempio le Regulae di Veronese (1428) e il successivo e fortunato Rudimenta grammatices di Niccolò Perotti (1468).

Di Giovanni Battista Gigola, Joseph Benalea – Carlo de’ Rosmini, Vita e disciplina di Guarino Veronese e de’ suoi discepoli, Brescia, Niccolo’ Bettoni, 1805, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3470516

Certamente queste ventate di rinnovamento interessarono principalmente le classi più elevate, mentre per gli altri la scuola rimase a lungo immutata, sia nei metodi sia negli strumenti in uso. Tuttavia le nuove posizioni degli umanisti furono di grande rilievo per condurre a una trasformazione in positivo dell’istituzione scolastica. Come ha sottolineato lo studioso Cesare Vasoli,

la scuola umanistica sarà alla base della pedagogia europea sin quasi ai giorni nostri (Immagini umanistiche, p. 54).

  • FONTI:
  • G. Cappelli, L’umanesimo italiano da Petrarca a Valla, Carocci, 2007.
  • S. Rizzo, Il latino nell’Umanesimo, in Letteratura italiana, V, Le questioni, Torino, Einaudi, 1986.
STORIA MEDIEVALE

Quando le ambulanze erano ceste: la Misericordia di Firenze

L’Arciconfraternita della Misericordia è un ente morale, fondato a Firenze nel 1244 con scopi di religione e di assistenza.

La fondazione è collegata alla predicazione del frate domenicano Pietro da Verona, che giunse a Firenze per combattere l’eresia patarina: in questo contesto nacquero varie iniziative dedicate al culto della Vergine Maria, tra cui appunto la Confraternita di Santa Maria della Misericordia.

Riconosciuta pubblicamente dal Comune nel 1329, dopo la peste del 1348 la Misericordia ingrandisce la propria sede dotandola di un oratorio e di una loggia affrescata (la Loggia di piazza S. Giovanni). 

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La Loggia del Bigallo

Dopo la fusione, avvenuta nel 1425, con la Compagnia del Bigallo, e dopo aver cambiato varie sedi, la Misericordia ottiene, grazie all’intercessione del granduca Francesco I de’ Medici, alcuni locali di un grande palazzo posto di fronte al campanile di Giotto: questa è ancora oggi la sede della Confraternita.

Come si legge sullo Statuto, la Misericordia nasce con i seguenti principali obiettivi:

  • prendere i malati, dovunque essi si trovino, e portarli ai pubblici ospedali;
  • grazie alle donazioni, elargire somme di denaro ai malati in situazione di indigenza;
  • soccorrere chi fosse colpito da malore o si infortunasse;
  • aiutare gli infermi nelle proprie abitazioni, cambiando la biancheria se necessario.

Principalmente trasportava malati e seppelliva i defunti, ma nel corso del tempo le sue attività si sono moltiplicate, e i confratelli si sono dedicati anche all’assistenza dei condannati a morte, alla visita dei detenuti, al trasporto dei malati di mente.

Il numero fisso dei confratelli, detti anche “Capi di guardia”, era 72, a ricordo dei discepoli mandati in Giudea dal Salvatore a portare la buona novella, e a preparare la via all’effusione divina della carità. Ad aiutare i confratelli nelle opere di carità cooperavano  molti “Aggregati” e “Ascritti”. Requisiti imprescindibili per “aggregarsi” alla confraternita erano: il compimento dei 16 anni di età, il non avere subito procedimenti penali, l’avere un comportamento onesto e decoroso e infine il professare la fede cattolica.

La struttura della Confraternita era decisamente democratica; si tenevano delle riunioni per decidere come impiegare i fondi derivanti da donazioni nell’aula appositamente predisposta. I confratelli votavano le varie proposte, ad esempio quelle legate ad acquisti, usando delle palline: nera in caso di risposta affermativa, bianca in caso di risposta negativa.

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La Sala del Consiglio. Firenze, Sede della Misericordia.

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Benefattori dell’Arciconfraternita. Firenze, Museo della Misericordia.

Ancora oggi la Misericordia svolge un fondamentale servizio di ambulanza; colui che riceve le richieste di aiuto viene chiamato “servitore”, a sottolineare l’umiltà di chi si pone a rendere un servizio benefico per la collettività.

La primissima ambulanza era la zana, una sorta di grande cesta imbottita di paglia, portata in spalla da una persona: sicuramente era un sistema assai scomodo, considerato il peso di una persona.

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La prima forma di ambulanza. Firenze, Museo della Misericordia.

In seguito ci si attrezzò diversamente, e i volontari iniziarono a portare i malati sui cataletti, piccole lettighe coperte di paglia (che poi veniva eventualmente bruciata, per evitare il contagio). Possiamo vedere due tipi di lettiga nelle foto sottostanti:

 

In passato (fino ai primi decenni del Novecento) i volontari andavano per le strade con un lungo abito, corredato da un cappuccio, funzionale sia a proteggerli dal contagio, ma soprattutto a garantirne l’anonimato: chi faceva la carità infatti, doveva tenerlo per sé, evitando di rendersi noto agli altri. Il cappuccio era detto “buffa”.

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Tuniche degli aggregati. Firenze, Museo della Misericordia.

Naturalmente il lavoro dei confratelli era molto prezioso soprattutto durante il periodo della peste. Di questa però si sapeva molto poco, come dimostra il Manuale sulla peste  conservato presso l’Archivio della Misericordia: si evince che avevano capito di dover cambiare spesso l’aria, e che credevano di poter combattere il morbo con un intruglio a base di scorpioni.

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Registro degli ammorbati soccorsi durante la peste del 1630. Firenze, Sede della Misericordia.

Sono stati rinvenuti i registri dove venivano conservati i disegni di alcune chiavi utili ai confratelli: in tal modo, in caso di smarrimento della chiave, era possibile recarsi da un fabbro per farne una riproduzione.

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Registro delle Chiavi. Firenze, Museo della Misericordia

I documenti conservati presso l’archivio della Misericordia sono molto interessanti perché consentono di ricostruire le entrate e le uscite della confraternita, con il dettaglio di quanto veniva acquistato; rappresentano quindi un utile strumento per descrivere la vita materiale del tempo.

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Registro delle Entrate e uscite della Misericordia.

Fondamentale era per i confratelli agire in nome delle Sette opere della Misericordia, richieste da Gesù nel Vangelo per ottenere il perdono dei peccati ed entrare nel Regno dei Cieli. Le opere della misericordia corporale sono:

  1. Dar da mangiare agli affamati.
  2. Dar da bere agli assetati.
  3. Vestire gli ignudi.
  4. Alloggiare i pellegrini.
  5. Visitare gli infermi.
  6. Visitare i carcerati.
  7. Seppellire i morti.

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Bernardo Daddi, Madonna della Misericordia, 1342, Firenze, Museo della Misericordia.

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S. Sebastiano, patrono della Misericordia.

Visitando il museo della Misericordia in piazza Duomo a Firenze è possibile scoprire e apprezzare la storia di questa istituzione, vedere documenti antichi conservati presso l’archivio, e godere di bellissimi affreschi risalenti a vari periodi storici.

STORIA MEDIEVALE

Amore e cavalleria, da “La cavalleria medievale” di Jean Flori

“L’amore non è sempre esistito, è un’invenzione francese del XII secolo”. L’amore, nella sua forma sentimentale e sensuale, nasce in Francia, in ambito aristocratico e cavalleresco. La cavalleria (ovvero la classe dei guerrieri a cavallo) è profondamente legata concetto di amore.

L’amore, la donna e il matrimonio

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Christine de Pizan in una miniatura del XV secolo

Nella civiltà dell’Occidente cristiano medievale la donna non è più in condizione di minorità, bensì ha dei diritti: può ad esempio ereditare, governare, stare in giudizio, e non può essere sposata contro la sua volontà, né essere ripudiata in modo arbitrario. Può persino ottenere il divorzio. Ovviamente si tratta di un iter molto lungo, fatto di piccoli progressi, basti pensare che nell’XI secolo l’Occidente cristiano aveva appena iniziato a fare del matrimonio un sacramento, e che ancora non tutti i matrimoni avevano l’amore come base.

Chiesa e aristocrazia hanno, del resto, una visione molto differente dell’amore e del matrimonio. Ad esempio, la chiesa dà molto valore all’idea della castità, e le unioni carnali sono appena tollerate nel matrimonio, ma per il fine esclusivo della procreazione; ogni sensualità è considerata lussuria, anche nel matrimonio stesso.

Per gli aristocratici il matrimonio è prima di tutto una necessità sociale, funzionale a stringere alleanza politica tra due caste o a porre fine a un conflitto tra esse; ovviamente le unioni di questo genere difficilmente contemplano l’amore, e anche se la sposa, raggiunta un’età minima, deve comunque dare il suo consenso, tuttavia difficilmente questa condizione non si realizza, anche a causa della pressione familiare.

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Il matrimonio medievale http://www.ontanomagico.altervista.org

 

La donna, l’amore e la corte

Per i nobili dunque la donna è una sorta di pedina politica, e ancor di più lo è per i cavalieri, i quali hanno la possibilità di elevarsi se riescono ad ottenere la mano della figlia di un signore. Va detto che, per limitare la riduzione del patrimonio signorile causata dalla frammentazione dei beni nella successione ereditaria, viene adottato spesso quale stratagemma la limitazione dei matrimoni. In ogni famiglia solo alcuni si sposano, a volte solo un figlio, mentre gli altri entrano a far parte del clero o rimangono comunque celibi. Poi sempre più spesso solo il primo  figlio eredita, mentre gli altri raccolgono solo pochi rimasugli, in modo tale che il patrimonio risulti pressoché intatto. Si forma così una importante categoria di uomini, quella dei giovani guerrieri che trovano sostentamento nella casa del padre, del fratello o di un parente, e che sono destinati al celibato, a meno di non trovare una sposa di alto lignaggio capace di garantire loro una sorta di promozione sociale. Questi cavalieri si chiamano juvenes o baccellieri, e sono alla continua ricerca di un patrimonio femminile, mentre la loro vita dipende dal castellano alla corte del quale sono a servizio.

L’amore detto “cortese”

La corte del signore si prestava benissimo dunque alla nascita dell’amor cortese, cantato dai trovatori (ovvero dai compositori ed esecutori di poesia lirica) dell’inizio del XII secolo: si tratta dell’amore profondo ed esclusivo che un giovane cavaliere consacra a una dama di rango più elevato, la quale spesso è sposata al signore da cui il cavaliere dipende. In un certo senso questi diventa doppiamente vassallo, perché anche con la donna egli intreccia una relazione vassallatica, essendole subordinato. La dama impone al suo spasimante delle prove, per ritardare il momento dell’unione. Questo amore non è platonico, ma non è pienamente soddisfatto: si configura come tensione continua tra il desiderio e il suo appagamento. Come cantano i trovatori, la gelosia del marito potrebbe sottrarre la donna all’adorazione dei suoi fedeli.

In questa concezione cavalleresca e cortese l’amore viene ad assumere dunque un valore fondamentale, e questo è un fatto nuovo, e ancora più innovativa è l’idea che l’amore sia capace di elevare e purificare anche l’atto sessuale. Non il matrimonio rende sacra l’unione carnale, bensì l’amore, il sentimento in sé. E questo sentimento trova numerosi ostacoli, di ordine sociale, religioso e morale. Il rapporto tra l’amore assoluto e questi ostacoli  è proprio al centro della poesia dei trovatori.

buona fortuna
Buona fortuna! di Edmund Blair Leighton, 1900. Dama e cavaliere.

La donna, il chierico e il cavaliere

Esistono dei testi letterari del XII secolo che parlano di “corti d’amore” presiedute da principesse di alto rango dove due dame discuterebbero dei rispettivi meriti dei loro amanti. Di questi amanti uno è chierico, l’altro cavaliere: il chierico è colto e premuroso, è buon oratore e si trova sempre a corte, mentre il cavaliere si assenta spesso per fare guerre o tornei, però è bello, prode e virile. Inoltre l’amore con il chierico è clandestino in quanto egli non ha diritto ad avere una moglie o un’amante, mentre il cavaliere è libero di vivere alla luce del sole le sue relazioni. In ogni caso dal testo emerge che matrimonio e amore sono inconciliabili, perché il matrimonio implica doveri e obblighi.

Alla fine del XII secolo viene scritto anche un interessante trattato dal chierico Andrea Cappellano, il De amore, detto “trattato dell’amor cortese”. Questo testo ha un’ interpretazione controversa, ed è incentrato sulla descrizione delle forme possibili dell’amore. Cappellano sostiene che l’amore non sia cosa per villani (ad esempio per contadini, pastori ecc.), mentre le altre classi sociali possono provarlo; al chierico sarebbe vietato, ma egli è come gli altri uomini, e come a loro anche a lui l’amore è necessario; tuttavia la Chiesa proibisce l’amore fuori dal matrimonio. Questo conflitto espresso in letteratura è comunque la prova di un problema reale, un problema di costumi e di mentalità.

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Chrétien de Troyes, Lancillotto

 

L’amore è dunque compatibile con il matrimonio? Amore e cavalleria sono alleati o nemici? Chrétien de Troyes, il primo grande romanziere francese, ha cercato delle risposte a queste domande, dando vita al romanzo arturiano e contribuendo all’elaborazione dell’etica e dell’ideologia cavalleresca.